martedì, maggio 26, 2020

Il tempo «sospeso» e la peste morale del presente. Intervista a Carlo Ruta

Carlo Ruta
Lei è autore del libro I giorni della peste, pubblicato  dalle  Edizioni  di  storia  e  studi  sociali: quali mali profondi della nostra società ha reso evidenti l’emergenza sanitaria del Covid-19?
Il Covid 19 ha rovesciato, a ben vedere, il vaso di Pandora, rivelando in primo luogo le illogicità dei paesi più ricchi e interconnessi, dell’Occidente europeo e atlantico in particolare, che poi sono quelli che più stanno subendo l’attacco epidemico. Negli ultimi decenni, a dispetto delle crisi, il mondo ha cambiato volto, sospinto dalle grandi economie sistemiche e dal gigantismo tecnologico, che hanno generato presunzioni di onnipotenza a tutti i livelli. L’intelligenza artificiale, i supporti satellitari, il web e i nuovi modelli dei consumi hanno portato a credere in una sorta di realtà aumentata, dove ogni risorsa è attingibile e a portata di mano, o di click. Tutto appariva perciò perfetto, infallibile, supremo.
Era però solo una parvenza, un film. Attaccato frontalmente dal nuovo virus asiatico, il re, come nella favola di Andersen, si è ritrovato infatti nudo, attonito e senza difese, privo quindi di quel carisma imperioso che aveva sempre ostentato. In questi mesi lo si è visto arrancare, brancolare nel buio, ottenebrato da una paura crescente che, a fronte della minaccia reale, lui stesso ha contribuito a rendere parossistica. Tanto tronfio e geloso dei «valori» di cui si sente il custode ultimo, dei suoi profitti e dei suoi arsenali, questo mondo si è rivelato, in larga parte, privo di senso strategico. Alcuni paesi non sono stati neppure capaci di munirsi in tempo di banali mascherine. Il Covid 19 ha rotto in sostanza il «giocattolo». Ha profanato fino allo scandalo le roccaforti della finanza globale, le città e le regioni più slanciate sul futuro, svelandone i bluff. E le risposte all’infezione appaiono davvero emblematiche di questo collasso razionale, che si esprime in vari modi, come, tra l’altro, la caccia all’«untore», la corsa esclusivistica al vaccino e i fucili d’assalto di cui vanno dotandosi le classi popolari e medie statunitensi, nella West Coast  in particolare, per sentirsi più protetti.

Cos’è la «peste» evocata dal titolo?

Come si evince da quanto detto, non è solo quella epidemica. La peste più temibile è annidata nei sistemi e nei processi cognitivi, nelle culture, nei modi di pensare delle società contemporanee, nel sostrato antropologico in definitiva. Essa avanza con le nuove paure, che rischiano di travolgere l’età dei diritti di cui parlavano nel secondo Novecento Hans Kelsen e Norberto Bobbio. Come dimostra, da tempo ormai, la diffusione dei populismi e di movimenti analoghi, sempre più si avverte un bisogno di «protezione» e di «sicurezza» per il quale diventa concepibile anche il sacrificio di libertà e diritti.  La peste viaggia con i risorgenti autoritarismi, con il restringersi del pensiero critico, che ha costituito nel mondo moderno e contemporaneo un presidio forte dei diritti e della democrazia. Le opinioni pubbliche tendono ad assuefarsi e a perdere quello stato di vigilanza attiva, quella reattività democratica che specie dalla metà del Novecento, con lotte sfibranti e costi molto elevati, ha cementato le strutture di quella «società aperta» di cui parlava Karl Popper. È andata mutando, in realtà, la percezione sociale delle cose, del , della vita, della morte, mentre li agi, l’opulenza e i comfort hanno abbassato sempre più la soglia del dolore e del tollerabile. Le sicumere tecnologiche e le presunzioni di onnipotenza coesistono allora con una perdita di senso, con un indebolimento, appunto, del sostrato antropologico. L’esito è quello di una rarefazione democratica che rischia di tradursi in regressioni aperte, nello smarrimento definitivo di quella razionalità attiva, conoscitrice e ordinatrice, civile in ultima istanza, che i Greci identificavano con il logos.

Quali precedenti storici è possibile richiamare per la situazione attuale?

La situazione epidemica di oggi costituisce per certi aspetti un unicum storico, e su questa unicità, non ancora ben rilevata sul piano analitico, credo sia opportuno riflettere un po’ d’ora in avanti. Le grandi infezioni del passato di cui ci giunge memoria, dalla peste di Atene del 430 a.C. fino alla Spagnola che esplose nel primo Novecento subito dopo la Grande Guerra, hanno avuto effetti pesanti sulle rispettive epoche, forse superiori a quelli che emergono dalle narrazioni letterarie e dalle fonti storiografiche. Ma a dispetto della loro immensa tragicità, hanno assunto, comunemente, movenze «taciturne», sciogliendosi negli sfondi delle epoche e facendosi, come altri elementi oggettivi, «paesaggio». È il caso di fare un esempio. Gli anni successivi alla Grande Guerra evocano, al cittadino bene informato oltre che agli storici, tante cose: gli sconvolgimenti della rivoluzione russa, il controverso trattato di pace di Versailles, la nascita e le prime evoluzioni del fascismo in Italia, l’uccisione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknect, la nascita della Repubblica di Weimar in Germania, l’avvento in Europa dei partiti comunisti. Ed evocano, ovviamente, l’epidemia Spagnola che nella «penombra» di quegli eventi svettanti nei titoli alti dei giornali, mieteva decine di milioni di morti: influente ma immanente, incidente ma muta, letale ma implicita, devastatrice ma di fatto impolitica. E con questa dimensione taciturna le pestilenze storiche in senso lato ritornano a ben vedere nelle narrazioni: da Tucidide a Procopio di Cesarea, da Boccaccio al Manzoni, dalle gazzette novecentesche a Camus, anche quando esposte con toni emotivi e veementi.

E cosa avviene oggi, con il Covid 19?

L’infezione di oggi, di cui non si discute la gravità sul piano sanitario, rimane una fenomenologia a sé, polimorfica, che da alcune prospettive non ha davvero precedenti. Nelle parti più «progredite» della Terra è esplosa come una carica atomica, mediatica prima ancora che epidemica, che ha interagito in modo eclatante con la vicenda, gli ordinamenti, l’organizzazione sociale, gli assetti giuridici e l’ethos civile di gran parte dei paesi. Era già così quando si trattava di spegnere in maniera coesa il «focolaio Italia», e l’Unione Europea in primis, che avrebbe potuto agire, non è stata capace di farlo, per miopia. L’infezione da Covid non è «taciturna» come lo erano la peste di Atene, quella di Giustiniano, quella del Trecento, quella del 1630, il colera del primo Ottocento e la Spagnola. Non è il «paesaggio» silenzioso ma terribile e influente entro cui si compone un vissuto storico più o meno nodale. Declinandosi bensì come paura, fino al parossismo, diventa l’attore unico e dispotico attorno a cui ruota l’intera scena. Il fenomeno epidemico intercetta in sostanza i mutamenti antropologici, la «peste» cioè di cui si diceva. E qui potrebbe stare la chiave di tutto.

Quali allora le differenze di fondo tra passato e presente? Dove sta la frattura?

Proviamo a mettere insieme alcuni fatti. La Spagnola, come si è detto, causò un numero complessivo di morti di molto superiore a quello causato dalla guerra scatenata dagli Imperi centrali. Eppure non produsse un’ossessione «su misura». Non occupò la scena in maniera assolutistica. Non paralizzò. Fu combattuta bene e male, con i mezzi sanitari e le risorse materiali del tempo. E a dispetto della sua incidenza materiale e morale nella vita sociale non causò il dissesto economico degli Stati, che invece conobbero, dopo il tracollo momentaneo determinato dalla guerra, una significativa fase ascensionale, fino al crack statunitense del 1929. I giornali europei dei primi anni venti apparivano interessati, un po’ per calcolo forse, più alla strage dei Romanov di Russia a Ekaterinburg che all’epidemia che aveva devastato i continenti, destinata a sparire quasi anche dalla memoria pubblica, un po’ alla volta, nel clima confuso di quegli anni, che incubavano altre «pesti», morali e politiche. La condizione di oggi è, diversamente, quella di una crescente eccitazione, alimentata anche da organismi tecnico-scientifici. Come si diceva, il Covid 19 appare perfettamente allineato con l’antropologia del panico, con ripercussioni politiche e geopolitiche, sociali e istituzionali, che si profilano già immense e laceranti. Si parla di nuove guerre fredde. Si registrano abusi, reticenze, opacità di Stato. Si avvertono crepuscolarismi giuridici. Resteranno traumi. Se, nonostante tutto, il 1969, l’anno della pandemia di Hong Kong, la Spaziale, che solo in Italia fece decine di migliaia di morti, resta nella memoria di chi allora era ragazzo come l’anno della Luna conquistata, il 2020 sarà ricordato come il tempo «sospeso» del Covid 19, della reclusione a prescindere, della caduta improvvisa, del distacco sociale, di mortificazioni infine, emozionali oltre che civili.

Lei parlava di «pesti» morali e politiche, tra le due guerre mondiali. Trova delle relazioni con quella che ha riferito all’oggi?

Sì, è così. Sono ravvisabili, seppure obliquamente, delle analogie tra l’oggi e quella stagione del Novecento, quando l’Europa finì con il trovarsi al centro di una grande catastrofe morale e civile, che avrebbe provocato cinquanta milioni di morti e, tra questi, lo sterminio nei lager di milioni di ebrei, omosessuali, zingari, oppositori politici. Nel 1935, quando Hitler si proponeva ancora come un moderato «uomo di pace», mentre emanava le leggi di Norimberga, Johann Huizinga congedava alle stampe La crisi della civiltà, in cui con grande lucidità denunciava il declino della razionalità occidentale, che passava attraverso le teorie e le persecuzioni razziali, la repressione politica, l’umiliazione delle minoranze e, in ultima istanza, la preparazione della guerra. Anche oggi si è ad uno snodo pericoloso, in cui aleggiano progetti crepuscolari, che pure si presentano come innovativi e progressisti, in grado di trarre il meglio dalle tecnologie telematiche per migliorare la condizione umana. Si pianifica, e non è più uno scherzo, la scuola «da remoto», si rigetta la storia come un cascame inutile, si manifesta avversione per la conoscenza, per lo studio pensoso, mentre, accampando presunte cause di forza maggiore, si tende a rovesciare i paradigmi della trasparenza. Appare istruttivo infine che si cerchi di far passare la democrazia, aperta per definizione, attraverso il cappio di piattaforme telematiche chiuse, paradossali, gestite da privati, a latere, in maniera privatistica.

Quale futuro, a Suo avviso, per la società attuale? 

A dispetto degli allarmismi, la lettura del fenomeno epidemico fa ritenere, ragionevolmente, che il peggio stia passando, soprattutto in Europa. L’infezione ha seguito dei percorsi in fondo «logici», incanalandosi lungo le aree più interconnesse della Terra. Proveniente dalla provincia industriale e finanziaria dell’Hubei, in Cina, ha infettato maggiormente la Lombardia in Italia, la regione di Parigi in Francia, le aree di Barcellona e Madrid in Spagna, lo Stato di New York negli USA, le città più avanzate del Brasile, e così via. Sono state sconfessate, evidentemente, le analisi di esperti e comitati tecnico-scientifici che prevedevano catastrofi epocali in Africa, nell’America Latina più povera, nel Sud d’Italia, nei campi profughi della Grecia. Eventuali ritorni nelle aree già infettate si renderanno perciò «isolabili», di conseguenza gestibili in condizioni di relativa normalità. Non c’è tuttavia da illudersi. La sarabanda allarmistica sta già aggiornandosi, mossa ancora dai «fantasmi» che opprimono questa modernità avanzata. Ed è importante che a tutto ciò venga posto un argine. Si annunciano anni difficili ma il mondo civile può riuscire ad agguantare il timone della storia. Occorrono iniziative imponenti di rinascita morale e culturale, in difesa della democrazia. Si pensi alle resistenze d’Europa, alle Primavere e al migliore Sessantotto, che pose in campo, al di là dei radicalismi violenti, la generazione del Vietnam. Per stringere infine sull’Italia, occorre affermare con chiarezza che le libertà e i diritti, conquistati con affanni e olocausti, non sono negoziabili, le garanzie costituzionali vanno difese a prescindere, come è da difendere l’istruzione, dalle elementari all’università, dalle manovre di chi, ancora sotto l’influsso delle «pesti», vorrebbe virtualizzarla. Si prenda atto che il mondo telematico è solo un mezzo, da cui trarre informazioni, per organizzare meglio la vita. Risalire china è, in definitiva, possibile, ma è fondamentale che il Paese civile, ben al di là delle polarizzazioni dell'odio, alzi lo sguardo e getti in campo, con determinazione, la sua forza tranquilla, le sue risorse morali e il suo buon senso.
(Fonte: Letture.org)

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