domenica, aprile 26, 2020

Il "partigiano" Verdelli, a proposito del cambio al vertice di Repubblica. Memorie di un cronista

Carlo Verdelli
ALBERTO STABILE
Fra tutte le sciocchezze che ho letto da parte dei non estimatori di Carlo Verdelli, con il quale, purtroppo, non ho avuto il piacere di lavorare, la più pretestuosa mi sembra quella di chi gli contesta la frase finale del suo addio ai lettori di Repubblica: "Partigiani si nasce e non si smette di esserlo". Una frase che secondo alcuni, cito il tuttologo Giampiero Mughini, prenderebbe quasi a pretesto le commemorazioni del 25 aprile, "dalle quali la retorica - dice Mughini -  colerà a fiotti, al punto da oscurare le roventi verità storiche di quella data simbolo", per manifestare, in realtà, la propria faziosità. Altri critici, più o meno sulla stessa linea di Mughini contestano a Verdelli i diritto di sentirsi partigiano dentro.

Riassumendo brevemente: da mesi Verdelli è obiettivo di minacce ignobili che non risparmiano neanche i suoi affetti più cari, al punto che le autorità di polizia hanno deciso di assegnargli una scorta. Nelle parole degli odiatori, queste minacce avrebbero dovuto concretarsi proprio in coincidenza del 25 Aprile. Giovedì 23, Verdelli viene licenziato debbo ritenere senza preavviso, dalla nuova proprietà di Repubblica rappresentata dalla holding finanziaria olandese Exor controllata dalla famiglia Agnelli e al cui comando siede uno dei nipoti dell'Avvocato, John Elkann. La Exor nei giorni scorsi ha perfezionato l'acquisto di Gedi, il gruppo facente capo alla Cir, la finanziaria della famiglia De Benedetti, che nel 1996 aveva rilevato il piccolo ma sostanzioso impero editoriale creato da Scalfari-Caracciolo, di cui fanno parte Repubblica, l'Espresso, i giornali locali, il sito HuffiPost. 
E' beninteso che, licenziando Verdelli per sostituirlo con Maurizio Molinari, direttore della Stampa, il giornale della famiglia Agnelli-Elkann, o Exor che dir si voglia, non ha fatto altro che esercitare un suo diritto: quello di avere un proprio uomo di fiducia al comando dell'ammiraglia del gruppo editoriale. Ma  per dirla con il sommo poeta, " 'l modo ancor m'offende". Una maggior sensibilità sul piano umano nei confronti di Verdelli non avrebbe consigliato di evitare che alla tensione per le minacce subite, si aggiungesse anche il verdetto inappellabile del licenziamento (la cui urgenza e segretezza mi ricorda il licenziamento di Calabresi, un anno e quattro mesi prima per mano di Gedi-De Benedetti, seppur si parla di De Benedetti figli)? Non potevano i nuovi vertici editoriali aspettare uno o due giorni ed evitare a Verdelli l'amarezza  della diabolica coincidenza, oltre al chiacchiericcio che ne è seguito? Giustamente, altri colleghi si sono chiesti: dove è finito in questo caso il tanto decantato "stile Fiat" che in passato ha molto reso sul piano dell'immagine dell'azienda automobilistica? Ma su questo mi permetto di dissentire. Non so quanto lo stile Fiat sia stato una vera innovazione, o un artificio propagandistico, in ogni caso, quanto ai rapporti aziendali, lo stile Gedi, o lo stile De Benedetti, col tempo non si è per niente dimostrato meno discutibile.
Avendo vissuto, negli oltre 40 anni che sono stato dipendente di Repubblica, quasi un decennio di profonda crisi dell'editoria, costellata di tagli e, nel caso della mia generazione, di prepensionamenti, ho potuto togliermi ogni illusione sulle presunte doti di condivisione ed empatia degli editori nei confronti dei giornalisti dipendenti. Sicuramente, noi ex giovani del '76, cresciuti assieme a Repubblica, abbiamo vissuto uno stato d'eccezione che è durato per i primi vent'anni del giornale, anni in cui, abbiamo creduto veramente che fossimo una famiglia (Scalfari non era forse soprannominato Barbapapà?). Ma dopo la vendita del giornale a De Benedetti, appunto, questo non è stato più vero. A pensarci bene, con l'accorpamento di Repubblica al gruppo Exor, cioè alla famiglia Agnelli e dunque alla Fiat, o Fca, come adesso si chiama, si chiude un'epoca, finisce la grande anomalia rappresentata da la Repubblica, l'unico giornale che per una larga parte della sua esistenza non è appartenuta né ad un gruppo industriale, né ad un gruppo di pressione, come di solito accade nel panorama italiano. E al posto della vecchia Repubblica  nasce una  concentrazione editoriale che qualche anno fa avrebbe fatto gridare allo scandalo (si pensi alle battaglie della sinistra contro l'editoria berlusconiana) ma che oggi non sembra un problema.
Ora, qualcuno mi vuol spiegare perché nel momento in cui Verdelli viene fatto oggetto di una grave e prolungata intimidazione, seppure verbale, di stampo fascista, non ha il diritto di contrapporre agli aggressori il suo sentirsi antifascista e partigiano. Forse, secondo Mughini, avrebbe dovuto piuttosto esercitarsi nei distinguo e negli approfondimenti delle molte verità della Resistenza, come un vecchio testimone o come uno storico di mestiere. Invece, proprio perché nato nel 1957 e non avendo quindi vissuto né la guerra, né la resistenza, Verdelli ha voluto riconoscersi e persino immedesimarsi nei valori di libertà che non appartengono soltanto a coloro i quali hanno combattuto in quegli anni ma a tutti gli italiani. E non è forse un suo diritto, nel momento in cui conclude l' esperienza a Repubblica, richiamarsi a un costume di pensiero e a dei valori, riassunti nella figura del partigiano, ai quali ha improntato tutto il suo operato promettendo di restarne fedele anche in futuro?
FACEBOOK 26/4/2020

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