martedì, aprile 07, 2020

A Milano. L’epidemia insabbiata. Al Trivulzio si indaga su settanta morti


di GAD LERNER
Il sindacalista: "Gli ospiti morivano e dicevano che erano solo bronchiti". Sospeso geriatra della Statale che voleva far usare le mascherine. "Quando sono tornato c’era il terrore"
La direzione del Pio Albergo Trivulzio, oltre milletrecento anziani ricoverati, il polo geriatrico più importante d’Italia, per tutto il mese di marzo ha occultato la diffusione del Covid-19 nei suoi reparti, intanto che il morbo contagiava numerosi pazienti e operatori sanitari. Il professor Luigi Bergamaschini, geriatra fra i più qualificati di Milano, ha subìto il 3 marzo un provvedimento di esonero perché colpevole di autorizzare l’uso delle mascherine chirurgiche al personale alle sue dipendenze. Il giorno stesso del suo allontanamento forzato è stato fatto esplicito divieto a medici e paramedici di indossarle.

Le ripetute diffide sindacali che parlano apertamente di "gestione sconsiderata dell’emergenza" hanno indotto la Procura di Milano ad aprire un’inchiesta "Modello 44" a carico di ignoti. Ma il delegato Cgil della Rsu, Pietro La Grassa, non esita a indicare il nome e il cognome del direttore generale del Pat, Giuseppe Calicchio, prescelto dalla Regione Lombardia, in carica dal primo gennaio 2019. "Il filosofo", lo chiama, perché in effetti quello è l’unico titolo universitario che Calicchio indica nel curriculum. Di lui è noto semmai il legame con l’assessore regionale alle Politiche sociali, Stefano Bolognini, cerchia ristretta di Salvini, al cui fianco Bolognini si trovava anche l’estate scorsa al Papeete di Milano Marittima.
«Gli anziani morivano e a noi, nonostante l’evidenza dei sintomi, dicevano che si trattava solo di bronchiti e polmoniti stagionali», denuncia La Grassa. «Il risultato è che ora al Trivulzio abbiamo sette reparti isolati completamente e due vuoti perché non accettiamo più nuovi pazienti. Nella struttura di Merate novanta sono sotto osservazione. Al Principessa Jolanda di via Sassi due reparti sono in isolamento». Non basta. «Quando l’epidemia non si poteva più nascondere, ci è arrivato l’ordine di non trasferire più i pazienti nel pronto soccorso dove di solito ricevono le cure necessarie», prosegue La Grassa, «il che di fatto significa: lasciateli morire nei loro letti. Niente tamponi, ci mandano allo sbaraglio».
Fino ad oggi l’immagine del glorioso Pio Albergo Trivulzio, l’ospizio per vecchi inaugurato nel 1771 da un nobile amico dei grandi illuministi lombardi Pietro Verri e Cesare Beccaria, era stata infangata solo dalle banconote gettate nel cesso dal faccendiere Mario Chiesa: l’inizio di Tangentopoli, 17 febbraio 1992. Ma ora è successo di peggio. Per salvaguardare l’apparenza di struttura immune dal coronavirus, è stata sacrificata l’incolumità di milletrecento persone.
A marzo sono stati settanta i morti solo nel grande edificio di via Trivulzio. Decisamente sopra la media. Senza contare le altre due sedi. Nei bollettini ufficiali si sosteneva che solo in nove decessi fosse riscontrabile il Covid-19 come concausa. Una cifra palesemente inferiore al vero. Intanto un fisioterapista è finito intubato in rianimazione, un medico risulta positivo con polmonite e altri due operatori sono infettati. Ma, in assenza di tamponi, è impossibile stabilire quanti siano davvero i portatori di coronavirus.
Raggiungo il professor Luigi Bergamaschini, che lavora da cinque anni al Trivulzio grazie a un protocollo di collaborazione con l’Università Statale, e ne ottengo piena conferma dell’accaduto. Bergamaschini è rientrato in servizio solo il 25 marzo, dopo che la Statale ha minacciato di tutelarlo con un’azione legale.
Questa è la sua testimonianza: «A fine febbraio, quando si ha notizia dell’arrivo dell’epidemia, ci poniamo il problema di utilizzare le mascherine chirurgiche. Ci rispondono che non ce ne sono. Chi riesce se le procura, tanto più che il 28 febbraio il mio reparto viene blindato. E io ovviamente, ignorando i rimproveri — "mica sei tu il direttore sanitario" — ne autorizzo l’impiego».
Si arriva così alla mattina del 3 marzo, quando ormai è scattata l’emergenza in tutta Italia. Prosegue il racconto di Bergamaschini: «Vengo convocato e mi comunicano che il direttore generale Calicchio è montato su tutte le furie perché faccio indossare le mascherine. Replico: ma io mi limito a non impedire di adoperarle... A questo punto la dottoressa Rossella Velleca mi notifica che da domani dovrò restare a casa, anche a tutela della mia salute visto che ho 70 anni. Ma è una scusa che non regge, vista la mail inequivocabile che mi arriva: "Stante la Sua gestione, Lei è esonerato dall’attività generale" ».
Nei venti giorni di assenza forzata, il professor Bergamaschini apprende dei primi contagi importanti avvenuti nella struttura di Merate. Anche lì si è continuato a lavorare senza mascherine. Al Pat, trasferiscono altrove tutti i pazienti del suo reparto, il Pronto intervento geriatrico. Nel frattempo vengono ricoverati dall’esterno altri 12 pazienti non testati, per cui non è da escludersi che siano stati anch’essi veicoli del contagio.
«Quando il 25 marzo sono rientrato in servizio — continua Bergamaschini — ormai al Pio Albergo Trivulzio si respirava un clima di terrore. Già si conoscevano i metodi autoritari del direttore Calicchio, giunto a sospendere un vecchio primario ormai prossimo alla pensione. Ma non riesco davvero a capacitarmi di che cosa lo abbia spinto a tenere sotto silenzio la grave situazione delle nostre strutture».
Non sarà facile ristabilire un clima di serenità all’interno del più grande ricovero per anziani d’Italia. Cosa si voleva ottenere, tacendone la situazione e, soprattutto, negando al personale le indispensabili protezioni sanitarie? Dal 2003 il Pio Albergo Trivulzio si era fuso con le altre due gloriose istituzioni cardine della filantropia ambrosiana: i Martinitt e le Stelline. Proteso al risanamento dei bilanci, aveva messo sul mercato diverse proprietà ereditate e entrate a far parte del suo cospicuo patrimonio immobiliare. Al sindaco di Milano spetta la nomina del presidente, escluso di fatto dalla gestione operativa che è di spettanza della Regione Lombardia. Pare però che i rapporti di Calicchio con l’assessore regionale alla Sanità, Giulio Gallera, fossero burrascosi. Lui preferiva farsi vedere con esponenti leghisti come l’assessore Bolognini e il presidente Fontana.
«Sotto elezioni venivano ad accarezzare i nostri ospiti, "nonnini, nonnini…" — ricorda il sindacalista La Grassa — ma al momento del bisogno hanno fatto finta che non esistessimo».
La Repubblica, 5 aprile 2020

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