venerdì, marzo 27, 2020

Nella notte tra il e il 26 e il 27 marzo 1970, cinquant'anni fa, moriva Alcide Cervi

Alcide Cervi, papà dei 7 partigiani uccisi
ILARIA ROMEO
"Mi hanno sempre detto 'tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta' la figura è bella e qualche volta piango. Ma guardate il seme, perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco [...] Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti […] I miei figli hanno sempre saputo che c’era da morire per quello che facevano e l’hanno continuato a fare, come anche il sole fa l’arco suo e non si ferma davanti alla notte. Così lo sapevano i tanti partigiani morti, e non si sono fermati davanti alla morte. E ora essi sono con noi in questa terra di Emilia dove le viti si abbracciano alle tombe, dove un lume e un marmo è la semente di ogni campo, la luce di ogni strada”
LA STORIA - 28 dicembre ’43, i fascisti fucilano i sette fratelli Cervi


I sette fratelli Cervi assassinati dai nazisti
La storia dei fratelli Cervi è la storia di una esemplare famiglia italiana. Il nonno si chiamava Agostino, e fu uno dei capi della rivolta contro la tassa sul macinato nel 1869. Suo figlio, Alcide, aderirà giovanissimo al Partito popolare prima, alla Resistenza poi. Partigiani saranno anche i 7 figli di Alcide: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore. Il 26 luglio 1943, il giorno dopo le dimissioni di Benito Mussolini da capo del governo, la famiglia offrirà un pranzo a base di pasta a tutto il paese di Gattatico, per festeggiare (da qui la tradizione ancora attiva della pastasciutta antifascista) e dopo l’armistizio dell’8 settembre i fratelli cominceranno a pianificare azioni contro i fascisti. Verranno arrestati  il 25 novembre e incarcerati nel carcere politico dei Servi a Reggio Emilia. Rimarranno prigionieri fino alla mattina del 28 dicembre, quando saranno fucilati per rappresaglia.
Il papà Alcide, loro compagno di cella fino a quel 28 dicembre 1943, rimarrà prigioniero fino al gennaio dell’anno seguente, quando il carcere verrà bombardato dagli alleati. Tornato a casa, rimarrà ignaro di quello che era accaduto ai suoi figli per tutti i giorni della sua convalescenza. “Dopo che avevo saputo – dirà nel volume I miei sette figli, dato alle stampe nel 1955 – mi venne un grande rimorso. Non avevo capito niente e li avevo salutati con la mano, l’ultima volta, speranzoso che andavano al processo e gliela avrebbero fatta ai fascisti, loro così in gamba e pieni di stratagemmi. E invece andavano a morire. Loro sapevano, ma hanno voluto lasciarmi l’illusione, e mi hanno salutato sorridendo; con quel sorriso mi davano l’ultimo addio”. Venuto a sapere dell’eccidio, papà Cervi riuscirà a ritrovare le tombe dei sette ragazzi solo tempo dopo.
Dirà il giorno dei funerali – che si svolgeranno il 25 ottobre del 1945, quasi due anni dopo la loro morte – “Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti […] I miei figli hanno sempre saputo che c’era da morire per quello che facevano e l’hanno continuato a fare, come anche il sole fa l’arco suo e non si ferma davanti alla notte. Così lo sapevano i tanti partigiani morti, e non si sono fermati davanti alla morte. E ora essi sono con noi in questa terra di Emilia dove le viti si abbracciano alle tombe, dove un lume e un marmo è la semente di ogni campo, la luce di ogni strada”.
“Ho raccontato la storia della famiglia e mia – dirà nelle conclusioni del volume – come il cuore ha saputo. L’ho raccontata e mi è costato fatica e dolore, ma avevo uno scopoDirle queste cose a tutti i padri di famiglia italiani che vivono di stenti e di sopportazioni, che invecchiano di lavoro per fare i figli grandi e contenti dei padri. Dirle prima di tutto ai vecchi come me, che sono stati traditi tutta la vita dai padroni, dai governi e dalle guerre, e adesso si ritrovano come a vent’anni senza lavoro e soldi, senza un sigaro da fumare, senza pensione o con cinquemila lire al mese, e con tanta voglia di morire per non avere più bisogno di mangiare e chiedere. Ai vecchi braccianti dell’Italia affamata di terra e di lavoro, che per tutta la vita sono stati zappe e badili che si prendono in affitto solo qualche mese all’anno, e per il resto devono inventare mestieri quando l’inventano, per resistere fino all’altra stagione. Ai fratelli contadini poveri del Mezzogiorno, che col sangue e la lotta hanno fatto più grande la bandiera rossa. Ai mezzadri compagni miei che i padroni gli rubano metà del raccolto, e loro danno all’Italia solo ignoranza e tradimento. Agli impiegati degli uffici che sanno come va male lo Stato e chi sperpera i soldi, mentre loro devono fare lavori in più e stanno sempre con la paura che nascono figli. Agli intellettuali che non possono creare l’utile, perché oggi la cultura che frutta è quella per l’inganno e la guerra, e i maestri non hanno lavoro e gli analfabeti non hanno maestri. Agli operai licenziati d’Italia, che potrebbero salvare lo Stato con l’intelligenza e l’onestà, e non riescono a salvare i figli dalla fame e dalle malattie. A voi tutti, dico: rifate come ho fatto io la storia della vostra famiglia, e vedrete che dicono tutte la stessa cosa. Perché la natura grida forte che cosa bisogna fare, la società pure, ma gli uomini ancora tutti non capiscono e si fanno il male con le mani loro. […] A casa mia ho raccolto più di ottanta prigionieri, per lo più inglesi e americani, venivano stracciati e con i pidocchi, certi in mutandine, e ritornavano via puliti, vestiti, ingrassati. Le nostre donne lavoravano fino all’una di notte per preparargli i vestiti e le camicie, compravano perfino i polli per dare la carne fina ai feriti e agli ammalati, quando c’erano rimaste solo le galline da uova. Sette figli hanno pagato per queste opere di bene, e la madre se ne è andata con loro per crepacuore.  […] Quando mi dissero della morte dei figli, risposi: dopo un raccolto ne viene un altro. Ma il raccolto non viene da sé, bisogna coltivare e faticare, perché non vada a male. Avevo cresciuto sette figli, adesso bisognava tirar su undici nipoti. Dovevano prendere ognuno il posto dei padri, e bisognava insegnare tutto da capo. Quando tornai dal carcere due mesi dopo nacque il terzo figlio di Gelindo, e gli mettemmo il nome del padre. Questo dunque era il più piccolo e la più grande aveva dieci anni, Maria, figlia di Antenore e di Margherita. Erano piccoli, perciò, ma io gli insegnai lo stesso. […] Guardate la mia famiglia: avevo sette figli, e ora ho undici nipoti. Avevamo 4 mucche, e adesso sono 54 capi di bestiame, con la produzione del grano che è salita a cinque volte quella del ‘35. Eravamo mezzadri, pieni di debiti, e adesso abbiamo ancora debiti da scontare per trent’anni, ma il fondo è dei nipoti e delle nuore. Non faranno più San Martino. E quando c’è da ascoltare il padrone per fare qualche miglioria, si riunisce il consiglio di famiglia e quello che decide è ben fatto. In più, abbiamo dato sette vite alla patria. Se c’è bisogno di dare ancora la vita, i Cervi sono pronti, e qualcuno pure sopravvivrà, e rimetterà tutto in piedi, meglio di prima. Ecco perché non ci fermeranno più. […] Che il cielo si schiarisca, che sull’Italia torni la pace e la concordia, che i nostri morti ispirino i vivi, che il loro sacrificio scavi profondo nel cuore della terra e degli uomini. Allora sì, mi sarò guadagnato la mia morte, e potrò dire alla madre dolce e affettuosa, alla sposa mia adorata: la terra non è più come quando tu c’eri, sulla terra si può vivere, e non solo morire di crepacuore. E ai figli, dirò: l’Italia vostra è salva, riposate in pace, figli miei”.
 Sangue del nostro sangue
Nervi dei nostri nervi
Come fu quello dei Fratelli Cervi
Ilaria RomeoArchivio Storico Cgil
fortebraccionews  Commenti  28 dicembre 2019

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