lunedì, marzo 16, 2020

Il personaggio. Vincenzo Agostino: “La mia vita per la verità sulla morte di mio figlio”


di Salvo Palazzolo 
«Trentuno anni fa, ho promesso che avrei tagliato la barba solo quando sarebbero stati scoperti gli assassini di mio figlio Nino e di mia nuora Ida – dice Vincenzo Agostino - Non è ancora arrivato quel momento, anche se in questi ultimi giorni stanno accadendo cose importanti».
La procura generale di Palermo si appresta a chiedere il rinvio a giudizio per i due presunti assassini del poliziotto del commissariato San Lorenzo e di sua moglie, i boss Gaetano Scotto e Antonino Madonia. E per la prima volta, da quel 5 agosto 1989, si intravede la possibilità di un processo. «Ma è ancora solo un punto di partenza», ripete l’uomo che a 83 anni è ormai il simbolo della battaglia per la ricerca della verità sui tanti misteri di Palermo.
Ha mai pensato di non arrivare a conoscere quella verità?

«Tante volte. Mia moglie Augusta è morta prima che ci fosse la svolta nell’indagine. Ripeteva ai medici: io voglio vivere, io voglio sapere chi ha ammazzato mio figlio, sua moglie e la nipotina che sarebbe nata. Non ce l’ha fatta. E, adesso, sulla sua tomba, c’è una lapide con la scritta: “Augusta Schiera, madre del poliziotto Nino Agostino, in attesa di verità e giustizia”».
Il giorno in cui sua moglie morì, era il 28 febbraio dell’anno scorso, lei disse: «Adesso, non mi interessa più conoscere la verità. Perché tanto non arriverà mai, sono più forti loro, è più forte il potere, e noi siamo troppo piccoli. Oggi hanno vinto loro». La pensa ancora così?
«La verità sulla morte di Nino e Ida è dentro lo Stato. Ci sono persone che sanno, ma non parlano. Non lo dico io, lo spiegano chiaramente le indagini, che hanno messo in evidenza un’azione intensa di depistaggio, iniziata poche ore dopo l’omicidio di Nino, quando furono trafugati alcuni appunti da un armadio della sua casa di Altofonte. Furono rubati nel corso di una perquisizione, evidentemente da agenti di polizia o comunque da rappresentanti delle istituzioni. Gente senza scrupoli, che operava agli ordini di qualcuno».
Per la sparizione di quelle carte, è stato indagato un ex ispettore, Guido Paolilli si chiama. Chi è?
«Sapevo che era un amico di Nino. Per questo mi fidavo di lui. Un giorno mi disse: “In quella carte ci sono cose che non ti faranno piacere”. Ma io volevo vederle quelle carte. Poi, da un’intercettazione della Dia abbiamo saputo che le aveva distrutte».
Di recente, ha scoperto che in questa storia Paolilli non è il solo amico sospettato di aver tradito Nino.
«La procura generale di Palermo accusa anche quel ragazzo che sembrava legatissimo a mio figlio: Francesco Paolo Rizzuto aveva 16 anni, Nino 28, andavano a pescare insieme. Anche la notte prima del delitto. La mattina, il padre di Francesco Paolo mi chiese la barca di Nino. Nel pomeriggio, invece, il ragazzo mi domandò più volte a che ora sarebbe tornato mio figlio, che quel giorno aveva cambiato turno di lavoro. Ma appena arrivò, Francesco Paolo andò via. Mi sono sempre chiesto perché. Pochi attimi dopo, si presentarono i killer».
Lei e sua moglie avete condotto la battaglia per la verità andando in giro per le scuole di tutta Italia. Il simbolo di un’antimafia che non smette di raccontare, e che mai urla.
«Negli ultimi tempi, Augusta aveva messo al collo il fazzoletto tricolore che Nino indossava il giorno del giuramento. Diceva: “Noi siamo partigiani della democrazia”. Anche adesso indossa quel fazzoletto».
Quando vi siete conosciuti?
«Abbiamo trascorso una vita insieme, nel settembre del 2019 sarebbero stati 60 anni di matrimonio. Quanti ricordi. La prima volta, la vidi a piazza Bologni. Era il 1957. Io aspettavo l’autobus che mi portava nella zona della Fiera, dove lavoravo come muratore. Augusta prendeva un altro bus, per andare nella bottega di una sarta. Cominciammo a scambiare qualche sorriso, qualche parola, anche se all’inizio lei sembrava restare un po’ a distanza. Ma poi ci fidanzammo, e venti mesi dopo venne celebrato il matrimonio».
Quella donna minuta e decisa era stata anche una piccola attrice. In quale film?
«“Campane a martello”, si intitolava. Del 1949. Protagonista Gina Lollobrigida, ma anche la mia Augusta, che aveva dieci anni. All’epoca, stava in un collegio a Ischia, il set del film, e fu scritturata con le sue compagnette per alcune scene. Ce n’è una in cui la piccola Augusta dice: “Ma che fa? Ha la valigia, parte?”. Un primo piano su di lei, e poi si vede una giovane Gina Lollobrigida, nel film si chiama Agostina, che va verso il traghetto. Un altro primo piano su Augusta, lo sguardo intenso di sempre. Com’era bella».
Com’è cambiata Palermo in questi anni?
«Vedo una città rinata, tanta strada è stata fatta. Grazie soprattutto a donne coraggiose che ci hanno insegnato a lottare per la verità. Penso a Saveria Antiochia, la madre di Roberto, il poliziotto ucciso assieme al commissario Cassarà, il 6 agosto del 1985. Penso alla mamma di Ninni Cassarà. E a mia moglie».
Come si potrebbe arrivare alle verità ancora nascoste dentro alcuni palazzi?
«Qualche uomo delle istituzioni dovrebbe passarsi una mano sulla coscienza, magari perché è arrivato al termine della sua vita. E pensare che ci sono figli e nipoti che hanno il diritto di sapere. Abbiamo avuto tanti pentiti di Cosa nostra, ma ancora nessun pentito di certi palazzi. E, poi, mi spiace che talvolta alcune istituzioni abbiano collaborato davvero poco con la magistratura».
A chi si riferisce?
«Ricordo quando il servizio segreto civile oppose il segreto di Stato ai pubblici ministeri di Palermo che chiedevano di sapere i nomi di alcuni agenti, un’informazione importante per proseguire le indagini. Ma anche quella volta non ci siamo arresi, siamo tornati a manifestare in piazza e a spedire migliaia di cartoline con l’immagine di Nino e Ida. Non ci possono essere segreti su questa vicenda così drammatica, che non riguarda solo due genitori, solo una famiglia, ma l’intero paese».
Che ragazzo era Nino?
«Aveva un grande senso del dovere. Prima di entrare in polizia mi aiutava nel deposito della Ferrero, di cui ero il responsabile: dopo lo studio, dava una mano a scaricare i camion. Quando poi indossò la divisa, lo mandarono prima alla caserma Lungaro, successivamente al commissariato Duomo, dove c’era un superiore che girava per i mercati e si faceva dare la spesa gratis. Nino non lo sopportava, glielo disse chiaramente. Finì che mio figlio venne trasferito».
Lo mandarono al commissariato San Lorenzo.
«In quell’ufficio iniziò ad appassionarsi alle indagini. Prima, era solo lavoro di routine e pesca. Poco a poco, le sue attività furono sempre più dentro il territorio in cui operava, lo Zen, e dentro questioni parecchio delicate».
Secondo la ricostruzione della procura generale di Palermo, suo figlio avrebbe fatto parte di una squadra che andava a caccia di grandi latitanti.
«E qualcuno lo tradì. Chi sa, parli. È arrivato il momento».
La Repubblica Palermo, 15 marzo 2020

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