giovedì, marzo 19, 2020

Con Libera, in attesa di essere liberi


di Paolo Bonacini, giornalista
La Giornata della memoria e dell’impegno promossa dalla associazione antimafia Libera, quest’anno avrebbe dovuto svolgersi il 21 marzo a Palermo, portando un mare di gente da tutta Italia a celebrare i primi 25 anni di vita della grande rete nazionale fondata da don Luigi Ciotti. In quel grande mare di persone perbene, migliaia e migliaia di studenti e lavoratori sarebbero arrivati lungo i fiumi delle Ferrovie dello Stato, in particolare grazie al treno organizzato da Libera che sarebbe dovuto partire da Milano la sera del 20 marzo, caricando gente a Bologna e Roma prima di sbarcare a Palermo. Su quel treno CGIL, CISL e UIL dell’Emilia Romagna avrebbero portato centinaia di lavoratori e pensionati.

Avrebbero, perché l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ci obbliga e ci impegna a restare in casa. Di manifestazioni di massa per ora non se ne parla.
L’incontro a Palermo è spostato ad ottobre, ma ciò non toglie che il 21 marzo resti una data importante, da ricordare e da vivere anche nel difficile contesto odierno.
Perché il coronavirus sconvolge la nostra vita e mette in crisi la nostra organizzazione sociale. Perché non si vede ma fa male. Perché uccide. Perché solo tutti assieme, attraverso comportamenti responsabili, pensando al bene collettivo e non all’interesse personale, riusciremo a sconfiggerlo.
Esattamente come con le mafie.
Non potremo andare a Palermo, ma potremo fare una piccola grande cosa, che Libera propone a tutti e che la CGIL sta ribattendo con forza sui propri canali social: diamo un segno visivo della nostra partecipazione, cambiando la foto del nostro profilo facebook, o condividendo una foto per chi il profilo non ce l’ha. Una foto in cui al volto di noi stessi affianchiamo un fiore e un cartello con il nome di una vittima di mafia. Una del lungo elenco, “recitato come un interminabile rosario civile” che nel primo giorno di primavera Libera ci ha insegnato a ricordare.
Quanto sia importante questo ricordo, ce lo racconta l’episodio del 1993 da cui prende vita la Giornata della memoria, richiamato nel sito nazionale di Libera: “Una giornata estiva. Il sole splende sulla autostrada tra Punta Raisi e Palermo. Magistrati, rappresentanti delle istituzioni e delle forze di polizia, cittadini e studenti commemorano il primo anniversario della strage di Capaci. C’è anche don Luigi Ciotti sul luogo del dolore. Prega, in silenzio. Quando, all’improvviso, si avvicina una donna minuta: si chiama Carmela, è vestita di nero e piange. La donna prende le mani di don Luigi e gli dice: «Sono la mamma di Antonino Montinaro, il caposcorta di Giovanni Falcone. Perché il nome di mio figlio non lo dicono mai? È morto come gli altri». Soffre, Carmela: in quel primo anniversario della strage la memoria di suo figlio Antonio, e dei suoi colleghi Rocco e Vito, veniva liquidata sotto l’espressione «i ragazzi della scorta». Da questo grido di identità negata nasce, il 21 marzo, primo giorno di primavera, la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Nasce dal dolore di una mamma che ha perso il figlio nella strage di Capaci e non sente pronunciare da nessuno il suo nome. Nessuno. Un dolore che diventa insopportabile se alla vittima viene negato anche il diritto di essere ricordata con il proprio nome”.
Ecco perché la testimonianza che Libera ci chiede oggi, una foto con un nome, è importante. E se non bastasse il ricordo di chi è morto, aggiungiamo il dovere di chi è vivo di fronte ad un fenomeno, la mafia, per il quale ancora manca il vaccino che renda immune l’intera popolazione. Lo dice, oggi, lo stesso don Luigi Ciotti rivolgendosi ai giovani italiani: “Mai come in questo frangente storico, nonostante il grande impegno di magistratura e forze di polizia, le mafie sono forti e potenti. Potenti perché insediate in un sistema economico-finanziario che, se non criminale, è criminogeno, e che, se non ha accolto le mafie, non ha fatto certo nulla per impedirne l’accesso, in un intreccio di omissioni, «distrazioni» e complicità. Ed ecco non solo le «zone grigie» ma l’osmosi che si è creata fra legale e illegale: da un lato mafie in «guanti bianchi», flessibili, reticolari, imprenditrici e sempre più globali, dall’altro la corruzione e la «mafiosizzazione» di vaste parti di società e dei poteri che le rappresentano”.
Anch’io il 21 marzo cambierò il mio profilo facebook e terrò in mano il foglio con un nome: quello di Giancarlo Siani. Uno dei tanti giornalisti uccisi dalle mafie. Un nome divenuto simbolico anche a Reggio Emilia, quando la storia del suo incontro mortale con la camorra napoletana arrivò nell’aula del processo Aemilia proprio il giorno in cui gli imputati chiedevano la celebrazione del processo a porte chiuse, attaccando i giornalisti per le loro cronache.
Gancarlo Siani era un “giornalista giornalista”, cioè uno che non si accontenta di scaldare una seggiola. Come i tanti colleghi che in questi giorni, mentre il coronavirus imperversa e uccide, continuano a fare il loro dovere primario di informazione della gente. Che ha bisogno e diritto di sapere, più e meglio di altre volte, cosa sta succedendo qui e altrove. Grazie a tutti loro, che oggi sono in prima linea come i medici, come gli infermieri, come tutte le persone che affrontano con responsabilità i sacrifici e con senso di altruismo e di orgoglio l’onere del lavoro.

19 Marzo 2020

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