giovedì, febbraio 27, 2020

IL LIBRO. Sicilia e mafia il finale possibile di una storia che fa male


di Enrico del Mercato
Esce oggi " La notte della civetta" di Piero Melati: un’analisi sulle ombre di un’Isola dove " buoni e cattivi" si confondono. La memoria degli anni più bui
 Deve essere successo nel tempo remoto in cui nuotano i Miti. Un giorno Colapesce deve essersi stancato di reggere la Sicilia e deve averla lasciata andare trasformandola così in una zattera alla deriva nella Storia, in una nave - come quella di Benito Cereno di Melville - che vagola per i mari e a bordo della quale non si capisce mai chi siano davvero i buoni e chi i cattivi; chi gli ammutinati e chi i leali al misterioso capitano che la comanda. A bordo di questa nave che le maree, ad intermittenza, portano nel centro esatto del fluire della Storia o lontanissima dagli accadimenti che ne caratterizzano un periodo, è salito Piero Melati portandosi appresso la memoria del cronista e la conoscenza delle mappe dell’intellettuale e ricavando da questo suo viaggio nella storia recente della Sicilia un libro sulla mafia che, però, non è soltanto un libro sulla mafia.
Piuttosto, è un libro sull’essere siciliani e, dunque, fatalmente "diversi" comunque impossibilitati a raccontare e a essere raccontati se non attraverso la filigrana del "mostro" (come lo chiama Melati) e della grande costruzione epica che i siciliani stessi hanno eretto in nome del mostro mafioso. Il calembour che dà il titolo al libro - La notte della civetta, storie eretiche di mafia, di Sicilia, d’Italia, edizioni Zolfo- segna la missione che Melati attribuisce al suo viaggio allucinato e lucidissimo insieme: provare a capire se il finale può essere cambiato. Il gioco di parole rimanda al romanzo che rivelò, per primo all’Italia intera, cosa fosse la mafia e come la Sicilia- terra metaforica per decisione degli dei- fosse l’inconscio della storia italiana, il suo incubo.
Ne "Il giorno della civetta" di Leonardo Sciascia - uno dei componenti dell’equipaggio della nave Sicilia che dopo avere rivelato la portata della mafia dovette passare all’esame di chi lo accusò di subirne la fascinazione- il finale non è lieto: don Mariano Arena, il boss consegnato alle enciclopedie dello stereotipo dalla famosa frase su "uomini, mezzi uomini, ominicchi, quaquaraquà e piglianculo" viene assolto e torna libero e potente. Ecco, quello di cambiare il finale, di ribaltarlo è il cruccio che alcuni dell’equipaggio della nave Sicilia si sono portati fin nella tomba. Ci racconta Melati- in uno degli episodi che possono apparire laterali e che invece segnano la storia del libro e di Tombstone ( la città della lapidi che è Palermo e che è la Sicilia intera)- che quello stesso cruccio si impadronì di Leonardo Sciascia quando, nel 1968, Damiano Damiani lo invitò alla prima del film tratto dal suo romanzo. Lo scrittore rimase sconcertato quando vide che il pubblico applaudiva don Mariano e lo applaudiva proprio mentre il mafioso, interpretato da James Lee Cobb, esplicitava la sua visione del mondo e degli uomini.
Del resto, come si potrebbe spiegare il fatto che leggendo " Il gattopardo" e guardando il film che ne trasse Luchino Visconti il pubblico empatizzi con il " principone" don Fabrizio - esponente di una classe sociale rapace e molle, che si rifiuta per pigrizia mascherata da saggezza perfino di assumere il ruolo politico che gli offre l’inviato dei Savoia e, dunque, di mettersi finalmente in gioco nei destini del nascente Paese- e avversi di default l’emergente Calogero Sedara che, nel suo gretto pragmatismo, interpreta comunque la nascente classe dei nuovi borghesi che segnerà il Novecento che si approssima?
Insomma, la Sicilia non gira mai sugli stessi ritmi della Storia, appare distopica, in ritardo, lontana dal centro degli accadimenti. E, invece, della Storia - in molti casi- è il motore nascosto. « Se la Sicilia è davvero una forma dell’inconscio dell’Italiaavverte Melati- accade esattamente quel che accade quando un singolo individuo pretenda ( senza metodo e scienza) di mettere mano al proprio inconscio. Apri la porta di questo armadio a muro carico delle cianfrusaglie nascoste e quella massa di cose stipata alla rinfusa ti crolla addosso con gran rumore. E ci manca poco che ti seppellisca » . Il metodo che il " personaggio senza nome" protagonista del libro adotta, è quello della memoria. La memoria dei fatti visti, non visti, colpevolmente taciuti che hanno scandito il tempo in cui l’Isola - metafora ha costruito, con mattoni insanguinati, il muro dell’incubo italiano.
Si potrebbe perfino cominciare dalla strage di Portella della Ginestra, dal primo grande mistero siculo- italiano manifestatosi sulla scena nell’imminenza delle decisive elezioni del 1948, all’indomani delle prime elezioni regionali, nel 1947, che segnarono un’avanzata del blocco delle sinistre preoccupando l’allora ambasciatore americano che inviò una allarmata relazione a Washington, ma il motore della memoria del protagonista senza nome- siciliano andato via dalla Sicilia e come tale posseduto dalla maledizione di «non poter vivere con la Sicilia né senza di essa- si accende sugli appunti relativi all’estate del 1985 quando per la prima volta, davanti ai suoi occhi, nella canicola psichedelica dell’agosto palermitano compare la Fata Morgana, che crea miraggi, che attenua i contorni e, dunque, all’occhio attento svela nuove dimensioni. In quell’agosto, la mafia uccide Ninni Cassarà, poliziotto cacciatore di mafiosi. Il " mostro" sfoggia in quella occasione la sua potenza militare e la sua capacità di comandare un territorio dal momento che chiude al traffico la strada in cui si consuma il delitto. Sono storie note che, però, Melati " smargina" per ricavarne un senso nuovo, capace, intanto, di tener conto di coincidenze e sciasciane incidenze. Del gruppo di fuoco che trucida Cassarà fa parte, per esempio, Pino Greco "scarpuzzedda" killer di Cosa nostra reso, ahinoi, mitologico dalla propensione sguaiata all’epica che si impadronisce dei siciliani riguardo ai fatti di mafia. Pino Greco frequentava lo stesso liceo di Cassarà, il liceo classico "Garibaldi", la scuola bene della città indifferente a tutto, soprattutto a sé stessa. Non sarebbe già questa, servita su un piatto d’argento dalla tirannica cronaca siciliana, la trama di un romanzo che racconti la storia mai raccontata della capitale della mafia, dove tutto si tiene, dove - ancora una volta torna alla mente Benito Cereno di Melville - non si capisce come riuscire a distinguere i marinai leali dagli ammutinati? La memoria del cronista, viene dispiegata sulle mappe dell’intellettuale e così si materializzano gli anni della guerra siciliana, il dominio della mafia, la sua capacità a muoversi politicamente non nel senso di scegliere i politici amici e sbarazzarsi dei nemici, ma di agire in modo da indirizzare gli accadimenti della società e dell’economia. Incubando strategie che, partendo dalla Sicilia, si sarebbero poi riproposte su scala globale. Il senso di questo libro, ciò che ne fa molto di più di un libro che parla di mafia, è proprio questo. E ha una dimostrazione pratica del teorema secondo il quale " In Sicilia è la chiave di tutto": l’invenzione del traffico internazionale di droga. Melati lo spiega ricorrendo a un luogo che forse solo pochi palermitani colgono nel portato metaforico globale che incarna: villa Sperlinga, giardino nella zona residenziale di Palermo che sul finire degli anni Settanta (per la precisione dopo il sorgere del movimento del ’77, anche questo - guarda un po’ - cominciato in Sicilia e poi dilagato nel resto del Paese) diventa il laboratorio economico sociale del grande affare del secolo che, ancora oggi, muove una rilevantissima fetta dell’economia mondiale. Succede che, in quegli anni, la mafia decide di prendere direttamente in mano il traffico di eroina, impianta raffinerie in Sicilia e crea il mercato, proprio come farebbe una qualsiasi multinazionale. A villa Sperlinga, dove si ritrovano i - fino ad allora- pochi tossici e i " fricchettoni" del movimento sparisce il " fumo", sostituito dall’eroina a bassissimo prezzo che Cosa nostra ha deciso di vendere in grande stile. Un’operazione di dumping si definisce in termini economici. Utile a distruggere una generazione che avrebbe pericolosamente potuto pensare in maniera diversa e a costruire il grande mercato della droga imperante ancora oggi.
La risposta alla domanda iniziale del libro ( è possibile cambiare il finale de " Il giorno della civetta"?, è possibile, alla fine, raccontare che la mafia ha perso?) è tutta qui. I grandi patrimoni narco mafiosi costruiti negli anni Ottanta sono ancora in circolo ( i pentiti non ne parlano e se i pentiti non parlano raramente gli inquirenti arrivano all’obiettivo), il traffico internazionale di droga, inventato dalla mafia siciliana, è più che mai ricco di capitali e i " paradisi fiscali" che Giovanni Falcone chiedeva di abolire sono sempre più floridi e intoccati. Magari è vero che Palermo non è più né mafiopoli, né Tombstone, ma è altrettanto vero che il virus della "sicilianità" circola ancora per il mondo. Al punto da dover rimandare l’appuntamento con il finale nuovo della storia che Giovanni Falcone, uno di quelli che il finale nuovo aveva provato a scriverlo sfidando mafiosi e antimafiosi che arrivarono a tacciarlo di " intelligenza col nemico", auspicò quando disse: « La mafia non è invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà una fine».
La Repubblica Palermo, 27 febbraio 2020

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