domenica, luglio 21, 2019

Quarant'anni fa. Boris Giuliano, sceriffo buono, primo caduto nella mattanza

Boris Giuliano
di Attilio Bolzoni
Alle spalle, gli è scivolato alle spalle perché solo così avrebbe potuto ucciderlo. E tremava, tremava mentre sparava a tradimento per sette volte. Il più paranoico dei sicari di Corleone e il poliziotto più amato di Palermo, una mattina di luglio di quarant’anni fa. La mattina che ha aperto il romanzo nero della Sicilia.
Un bar della città nuova davanti alle palme di Villa Sperlinga, il sudore dell’afa e quello trasportato della paura, un caffè e il primo sbirro italiano che aveva avuto l’onore di frequentare il quartier generale del Federal bureau of investigation di Quantico era a terra. L’altro, Luchino Bagarella, era già un fantasma.
Palermo, 21 luglio 1979, la mafia uccide il capo della Mobile Boris Giuliano. Stava indagando sui traffici di droga dei Bontate e degli Inzerillo, sui Corleonesi a un passo dalla conquista di Cosa Nostra, sui legami dell’aristocrazia criminale mondiale con il banchiere Michele Sindona. Dieci giorni prima a Milano avevano fatto fuori l’avvocato Giorgio Ambrosoli, l’eroe borghese che era penetrato nei misteri finanziari dell’impero di don Michele. Poi è toccata allo "sceriffo buono".

Quarant’anni fa, redazione del quotidiano L’Ora , il giornale dell’altra Palermo. La radio della polizia vomita voci che si accavallano, sempre più alte, sempre più concitate. C’è stato un omicidio in via Francesco Paolo Di Blasi, nel bar Lux. Nessuno sa ancora chi sia la vittima. Ma nello stanzone della cronaca dell’ Ora il viso di Gianni Lo Monaco diventa bianco come uno straccio. Lui, vecchio e informatissimo cronista giudiziario, sa bene chi abita da quelle parti. Ha già capito chi è il morto.
L’edizione del pomeriggio avrà 15 pagine sull’agguato e nessuna firma sotto gli articoli. I nomi dei cronisti (che piangono davanti al cadavere del commissario) sono tutti all’interno di un box, tutti che sanno tutto e niente, nessuno che vuole dare la sensazione all’esterno di conoscere un dettaglio in più o un dettaglio in meno, i giornalisti che si stringono uno accanto all’altro per salvarsi la pelle, un pool prima del famoso pool dell’ufficio istruzione. È una cautela che i redattori dell’Ora adotteranno anche nei mesi successivi, delitto eccellente dopo delitto eccellente nel mattatoio Palermo.
Chi voleva morto Boris Giuliano? Lo volevano morto quelli della vecchia guardia e quelli di Corleone, lo volevano morto gli innominabili padrini della borghesia mafiosa palermitana e i malacarne di Corso dei Mille che da rapinatori erano stati promossi picciotti.
Raffinatissimo investigatore. Giuliano quasi dieci anni prima — era a capo della Omicidi — aveva esplorato i territori infidi intorno alla scomparsa di Mauro De Mauro, il giornalista rapito una sera di fine estate del ‘70 e mai più ritrovato. Aveva puntato gli occhi sulle esattorie dei potenti cugini di Salemi Nino e Ignazio Salvo, quelli che il giudice Falcone avrebbe incastrato al maxiprocesso.
Nomi che si intrecciano da un’epoca palermitana all’altra, nomi che ritornano sempre. Ma in quel luglio del 1979 il commissario capo aveva scoperto troppo e troppo presto. Una valigia con 650 mila dollari sequestrata all’aeroporto di Punta Raisi l’aveva collegata a movimenti di denaro sospetto, poi la domanda sbagliata al direttore di una banca. Indagini ravvicinate e una visione ampia del fenomeno criminale in Italia, poliziotto all’antica ma al contempo modernissimo, una miscela esplosiva in quella Palermo dove in molti si voltavano dall’altra parte.
Una delle ultime missioni di Boris Giuliano nell’estate siciliana del ‘79 fu una visita a Leonardo Sciascia a Racalmuto, una chiacchierata con lo scrittore. Qualche giorno prima da Sciascia erano andati due siculo-americani che stavano preparando — dopo il falso sequestro — la fuga di Michele Sindona da New York verso la Sicilia. Il commissario era curioso. Non ebbe tempo di capire di più.
Quella mattina di luglio lasciò moglie e tre figli (il più grande, Alessandro, oggi è questore di Napoli) e la polizia italiana perse uno dei suoi uomini migliori. A sostituirlo come capo della Mobile fu scelto Giuseppe Impallomeni, tessera numero 2213 della loggia P2. Il nuovo questore era Giuseppe Nicolicchia, uno che aveva fatto domanda di affiliazione in una succursale sudamericana dell’allegra compagnia di Gelli. Tutto a posto.
Le indagini sull’omicidio di Giuliano furono seguite dal giudice Paolo Borsellino. Una coda dell’inchiesta fu ripresa dal capitano Emanuele Basile, il comandante dei carabinieri di Monreale. Meno di un anno dopo — la notte fra il 3 e il 4 maggio 1980 — ucciso anche lui. Da quel momento Palermo è diventata un cimitero. Una lapide in ogni strada, una croce a ogni angolo. Fino all’atto finale di Capaci e di via D’Amelio.
La Repubblica, 21 luglio 2019

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