sabato, giugno 15, 2019

Quei leader di sinistra che hanno dimenticato la fatica dei lavoratori


di Gad Lerner
Milioni di voti perduti anche per la scarsa credibilità dei dirigenti Cofferati: torno alla Pirelli. Poi cambia idea E Chiamparino sceglie Marchionne
«Siamo nati in un mondo senza diritti e tutele: molti di noi non sanno cosa sono». Lo raccontava ieri su Repubblica a Marco Patucchi un ventisettenne meccanico stampista della Omron di Frosinone, somministrato - cioè affittato - da Adecco alla multinazionale per cui lavora. Per la prima volta quel giovane ha partecipato a uno sciopero generale dei metalmeccanici, tutelato da un contratto a tempo indeterminato ottenuto dopo anni di precariato. Forse è un’avvisaglia. La sensazione che la misura è colma, e che il futuro dell’industria italiana non si trova affatto in buone mani, sta spingendo i sindacati a ritrovare l’unità perduta. E chi sciopera non prova certo imbarazzo a farlo contro un governo che pure aveva votato. Magari anche solo per marcare la sua distanza siderale da una sinistra ai suoi occhi sfregiata dal marchio d’infamia del privilegio.

La sinistra senza operai è un controsenso. Storico ed esistenziale. La ragione d’essere originaria della sinistra consisteva nel rimettere in discussione il diritto assoluto alla proprietà privata, in nome e per conto di chi ne era escluso. Da quando i dirigenti della sinistra hanno smesso di minacciare il sacro dogma della proprietà privata, allo scopo di rassicurare i detentori della medesima, nella convinzione che averli contro avrebbe frenato la crescita economica e impedito loro di accedere al governo dello Stato, ha avuto inizio la loro separazione dalle classi subalterne. Per consolarsi di questo divorzio, o per evitare di farci i conti, alcuni leader della sinistra nel passato recente erano giunti a sostenere che gli operai non esistono più. Ma naturalmente è falso: cambiano l’organizzazione delle aziende e cambiano le caratteristiche del lavoro sotto padrone. L’epoca è semmai quella della proletarizzazione diffusa di nuovi soggetti, non certo della scomparsa del lavoro alienato, tuttora afflitto spesso anche da fatica fisica.
La destra che si erge a paladina delle vittime di retrocessione sociale, purché dotate di appartenenza nazionale su base etnica e religiosa, rimane altresì custode gelosa delle gerarchie e, pur agitando vaghe promesse di vendetta contro i parassiti, mai e poi mai farebbe sua un’azione incisiva a danno dei ricchi.
E’ spiacevole farci i conti, ma i milioni di voti popolari perduti dalla sinistra hanno molto a che fare con un’incrinatura di credibilità dei suoi dirigenti. Delle loro biografie. Non a caso la propaganda della destra punta il dito contro l’imborghesimento della sinistra. Non solo in Italia. Prendiamo il caso dei due più grandi dirigenti di origine operaia che sul finire del secolo scorso hanno guidato vittoriose rivoluzioni sociali e di libertà: Inàcio Lula da Silva in Brasile, e Lech Walesa in Polonia. Per demolirne il mito, si sono scatenate campagne di denigrazione personale,accusandoli di avere lucrato sul proprio successo rinnegando le loro origini. E’ l’offesa più grave, perché i proletari hanno bisogno di riconoscersi in chi li guida, a partire dal suo stile di vita, per mantenere la certezza che continuerà ad agire nel loro interesse, nella buona e nella cattiva sorte.
E in Italia? Nel lontano 2002 un segretario generale della Cgil, Sergio Cofferati, sul finire del suo mandato fece un annuncio clamoroso ed esemplare: torno a lavorare nella mia fabbrica, la Pirelli. Già da un ventennio il mondo del lavoro dipendente viveva una retromarcia sia nel potere d’acquisto dei salari, sia nelle tutele sindacali. Quel gesto da novello Coriolano sembrava indicare, col proprio sacrificio personale, i tempi lunghi necessari per la rivincita operaia. Cofferati era dirigente amatissimo, da molti indicato come la figura più adatta per un progetto di rifondazione della sinistra. Ma ben presto tornò sui suoi passi, accettando la candidatura a sindaco di Bologna. E l’incantesimo si spezzò. Come se non vi fosse più spazio in Italia per il sogno di un leader operaio. Al contrario, fu proprio in quegli stessi anni che l’erede più riconosciuto della tradizione del Pci di Berlinguer, Massimo D’Alema, per risultare candidato credibile alla guida del Paese, ritenne opportuno "aggiornare" la sua immagine di umile funzionario di partito. Tale innovazione gli costò sgradevoli insinuazioni, probabilmente false, sul costo esagerato delle sue scarpe. Ma fu proprio lui, invece, a compiacersi della (multi)proprietà di una barca a vela, status symbol evidentemente ritenuto funzionale ai ruoli pubblici cui aspirava.
Si badi bene. Anche Enrico Berlinguer amava veleggiare, e di lui si conserva una bellissima fotografia al timone di una barca (non sua) nel mare di Sardegna. Ma nessuno avrebbe mai potuto appiccicargliela addosso con finalità ironiche. Semmai la vera foto-simbolo di Berlinguer rimane quella della sua dolorosa condivisione di una sconfitta operaia: il comizio ai cancelli di Mirafiori, nell’autunno 1980, quando ormai si profilava inevitabile l’espulsione dalla Fiat di decine di migliaia di lavoratori. Alle Botteghe Oscure, non pochi dirigenti del Pci disapprovarono il segretario per quel comizio, in cui per giunta evocò un’azione di lotta estrema come l’occupazione della fabbrica. Ma fu proprio un istinto di sinistra a suggerire a Berlinguer che vi sono circostanze in cui, a torto o a ragione, devi saper dire innanzitutto tu da che parte stai.
Avete presente, trent’anni dopo, Matteo Renzi che proclama: «Io sto con Marchionne senza se e senza ma»? Così come il sindaco torinese Chiamparino, tanto aspro e polemico con Landini e Airaudo della Fiom, quanto compiaciuto di raccontare ai giornalisti le sue partite a scopone notturne con Marchionne?
Mi scuso se ricorro a esempi personali per spiegare un fenomeno mai riducibile ai sentimenti e alle convenienze dei singoli (peraltro, l’ultimo a poter lanciare accuse moralistiche sarebbe il sottoscritto). La recisione dei legami storici con il mondo del lavoro, che in precedenza i partiti di sinistra curavano fino al punto di garantire l’ingresso in Parlamento di quadri operai provenienti da tutte le principali aziende del Paese - di modo che la controparte imprenditoriale tenesse ben presente con quale forza doveva fare i conti - precede e giustifica il cambiamento di stili di vita dei dirigenti. Non solo degli ex comunisti, ma anche dei socialisti. Forse non è un caso se più sobri si mantennero i cattolici, detentori di un altro credo messianico.
Comunisti e socialisti, invece, esaurita la fede, marxista e messianica al tempo stesso, nella Classe operaia con la C maiuscola, levatrice del rovesciamento dei rapporti di produzione, oppure virtuosamente disposta ai sacrifici caricandosi sulle spalle l’interesse nazionale, non potevano che trovare molto meno interessanti i destini individuali degli operai in carne ed ossa. Fu allora che gli operai, il popolo delle formiche, di sconfitta in sconfitta, cominciarono a sentirsi soli.
Gli intellettuali non avevano più l’obbligo di rendere omaggio alla centralità operaia; e passava in second’ordine perfino quel rispetto per il lavoro manuale, i mestieri e le professionalità e la fatica fisica, che avevano fatto scrivere pagine memorabili a Italo Calvino e Primo Levi, fra tanti altri.
Una vera e propria ansia di legittimazione assale poi i gruppi dirigenti della sinistra allorquando si fa concreta la prospettiva di accedere finalmente al governo nazionale, dopo le tante ottime prove fornite nll’amministrazione delle città e delle regioni. Bisognava rassicurare i soliti noti vecchi padroni del vapore. Già lo si sapeva che gli ex comunisti non mangiavano i bambini. Di più, ora bisognava mostrare loro, nei convegni e negli incontri riservati, che la modernizzazione proposta dagli economisti di sinistra non avrebbe insidiato le posizioni dominanti cementate nei decenni precedenti, soprattutto intorno a Mediobanca.
Oggi viene facile orchestrare una danza macabra intorno alla sinistra senza operai, con tanti iscritti Cgil che s’illudono di trovare rifugio nella trincea pseudo-nazionalista del "prima gli italiani", e con lo smottamento in zona leghista di Sesto San Giovanni, Monfalcone, Pistoia, Piombino, Ferrara. Capita perfino che a scoprire l’acqua calda - l’infatuazione lib-lab dietro a Blair, la ritirata dalle periferie, i diritti umani e i diritti civili anteposti alla questione salariale - provvedano i medesimi aedi e rapsodi che diffusero con zelo il verbo di quella terza via rampante. Più utile sarebbe fare un passo di lato, riconoscendo il peso delle nostre fortunate biografie, di gente bene inserita nelle stagioni in cui è stata al potere la sinistra senza operai.
Anche mezzo secolo fa, nel 1969, cominciarono a scioperare nuovi operai del tutto ignari di diritti e tutele, come i giovani precari odierni. Venne l’autunno caldo che inaugurò un ciclo vittorioso di conquiste sociali e di redistribuzione della ricchezza a favore del lavoro. La storia suggerisce che, dove e quando meno te l’aspetti, la sinistra popolare sa rigenerarsi esprimendo nuovi rappresentanti. Dalle biografie più adatte.
La Repubblica, 15 giugno 2019

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