martedì, febbraio 13, 2018

UN PAESE SENZA NOME MA NON CERTO IMMAGINARIO

PIPPO ODDO
“Un paese senza nome. Sicilia, storia e sentimenti” (Trapani 2016 ) non è il solo libro della poetessa e scrittrice Emilia Merenda, palermitana, autodidatta di buona cultura e rara sensibilità storica e antropologica, affinata con costanza d’attenzione e orgoglio d’appartenenza al prezioso patrimonio culturale della terra in cui è esordita al mondo alla fine del 1945: la Sicilia, vale a dire la maggiore di quelle isole mediterranee che Fernand Braudel ha definito «quasi continenti» e Goethe «centro meraviglioso dove convergono tanti raggi della storia universale». “Un paese senza nome” non è nemmeno la sua opera prima, perché – senza contare le poesie già piazzate ai primi posti nei concorsi poetici (celebrati in numerose località siciliane) e inserite in diverse antologie – Emilia aveva pubblicato nel 2012 a Patti (Messina), “Il capezzale, 10 racconti”. Nel 2017 ha inoltre dato alle stampe ad Avola (Siracusa) “Diversamente poeta”, una silloge di poesie in lingua italiana, e a Sanremo (Imperia) “A beddu cori”, raccolta di poesie in siciliano. 

Non c’è ombra di dubbio, tuttavia, che scrivendo nel 2016 “Un paese senza nome”, la Merenda abbia compiuto un vero e proprio salto di qualità, che l’ha fatta assurgere, quasi per incanto, al rango di scrittrice di romanzi. La stessa struttura della narrazione di questa opera rimanda, infatti, alla tipologia del romanzo nell’accezione più genuina del termine, così come è cominciato a configurarsi nell’Ottocento. Ed è un tipo particolare di romanzo che si può qualificare come storico, costruito sul filo della memoria dei racconti di suo nonno Peppino o – per dirla con le parole della drammaturga e poetessa Emilia Ricotti – «un lungo interminabile monologo dialogo che si sviluppa attraverso un flashback che va alle radici del suo viaggio terreno», intercettando tre quarti di secoli di storia, scanditi soprattutto da episodi di vita materiale, emozioni forti e scommesse esistenziali, affetti sinceri ed eterne incomprensioni, ma anche fatti notevoli avvenuti perlopiù durante la belle époque, come la spedizione al Polo Nord del duca degli Abruzzi Luigi Amedeo di Savoia al Polo Nord (giugno 1899 – aprile 1900) e il terremoto di Messina (dicembre 1908), dei quali il Nostro è stato testimone privilegiato. Alla belle époque seguì, com’è noto, la grande guerra del 1915-1918 e il nonno fu richiamato alle armi e rischiò di morire due volte, ma in compenso, dopo aver girato il mondo in largo e in lungo, si passò pure lo sfizio di attraversare finalmente lo stretto di Messina in ferryboat. Cosa che racconterà con l’abilità e la passione di un grande affabulatore alla nipotina Emilia, l’autrice del romanzo.
La quale scrive con un mix di orgoglio e commozione: «Le sue storie anche drammatiche, narrate in maniera ironica, invece d’impaurire, appassionavano e non solo capitava a noi bambini, ma anche agli adulti […]. Il procedere dei suoi racconti incantava l’interlocutore che rimaneva incuriosito fino al termine della storia, che spesso si chiudeva con un finale a sorpresa». Se renderà conto il lettore leggendo il romanzo, dal quale si evince inconfutabilmente che Emilia Merenda ha ereditato dal nonno Peppino le sue belle qualità di narratrice. Ne diamo un piccolo saggio riportando alcune delle parole che lei mette in bocca al nonno a proposito della spedizione al Polo Nord:
«Salpammo da Cristiania il dodici giugno del 1899 con un equipaggio composto da una ventina di uomini italiani e norvegesi. Al molo vennero a salutarci il principe di Napoli, Vittorio Emanuele di Savoia e la principessa Elena. Navigammo per tanti giorni costeggiando la Norvegia fino a giungere a Hammerfest, una delle tante isole nei pressi di capo Nord e dopo che lo doppiammo, ci dirigemmo verso le coste russe. Verso la fine di giugno giungemmo alla foce del fiume Dwina, in Russia. Ci fermammo presso il porto di Arcangelo […], dove imbarcammo un centinaio di cani siberiani. Erano bestie all’apparenza magre, ma molto litigiose e servivano per il trasporto delle slitte […]. La navigazione riprese fino a Capo Grant, ma ebbero inizio le prime difficoltà: masse di ghiaccio galleggianti e la nebbia fitta impediva la navigazione. Il Duca fu costretto a tornare indietro, dirottando la nave attraverso un canale navigabile, in cerca di un percorso più agibile […]. Era il mese d’agosto ed era necessario trovare un ancoraggio per mettere al riparo la Stella Polare. Il lungo inverno artico era in arrivo e si dovevano scavare canali di protezione […]. La spedizione fu articolata in tre gruppi e quando le slitte con i cani, cariche dell’occorrente necessario alla sopravvivenza, sparirono tra la nebbia, provai un forte senso di desolazione […]. Il gruppo degli uomini con le slitte partito per primo purtroppo non fece più ritorno e di loro non fu mai trovata traccia; dei cento cani imbarcati, ne fecero ritorno soltanto sette. I superstiti ritornati alla base soffrirono per diversi giorni e al termine di un’intera settimana di atroci sofferenze, di nausee e di vomiti, ci raccontarono che per sopravvivere alla fame e al freddo, furono costretti ad uccidere i cani, sia per sfamare se stessi, che per cibarsene a loro volta ma, grazie a quella carne non adatta a stomaci umani, riuscirono a sopravvivere e a ritornare sani e salvi alla base».
Si potrebbero citare tanti brani ma ci limitiamo a riferire le conclusioni cui pervenne il nonno alla vigilia del suo congedo dal mondo: «Speravo di trovare altrove ciò che non avevo avuto in famiglia. Attraversai l’oceano, vidi altri paesi e ho sfidato la morte e dopo anni trascorsi a viaggiare, capii che per vivere serenamente non era necessario che fuggissi ancora. Credevo di rincorrere il tempo, aspettando il domani, con la speranza di ricevere un premio all’arrivo, ma col passare degli anni ho capito che il tempo non si può rincorrere, esso è terra di confine tra verità e menzogna […]. Durante i miei viaggi credevo di trovare un mare diverso, ma quello che attraversavo era lo stesso mare del mio paese, solo più profondo e difficile da navigare, com’erano i miei pensieri».
Il mare, la terra nei suoi multiformi aspetti, il misterioso paese da cui si diparte la storia sono dunque dimensioni dello spirito dell’io narrante, metafore delle sue emozioni. All’opera, la Ricotti (che il 14 gennaio 2017 l’ha presentata assieme ad altri nell’esclusiva cornice della Sala delle Carrozze di Villa Niscemi, a Palermo) riconosce giustamente che «ha una struttura solida: fanciullezza, viaggio, maturità, che si snoda attraverso un percorso che va alla ricerca di sé per riformare il mondo». In buona sostanza, “Un paese senza nome” è un’Odissea più spirituale che fisica. «Cercavo un luogo lontano da raggiungere – fa dire l’autrice al nonno –, l’unico posto che non avevo visto durante i miei lunghi viaggi, il luogo dove mi era stato impedito di fermarmi, anche per un solo attimo. Quel posto lontano, eppure tanto vicino dove non mi avevano accettato e che non conobbi mai, quel paese senza nome, nascosto nel cuore di mia madre!».
È appunto il difficile rapporto del futuro nonno Peppino con la madre il filo rosso che lega l’ordito della narrazione, attorno al quale si annodano altre vicende umane, prima delle quali quella della sorella maggiore del protagonista, suor Emilia, al secolo Pierina, che, piuttosto che rassegnarsi ad accettare un matrimonio combinato dalla madre, si fa suora e va vivere in convento a Messina (città dov’era nato suo padre), restando un riferimento forte per il fratello, fino a tarda età, quando era cieca e non poteva viaggiare più. «Settimanalmente aiutata dalle “sorelle” – scrive l’Autrice –, gli scriveva lettere o cartoline e lui, che nonostante l’età ci vedeva bene, le scriveva lunghissime lettere, nelle quali raccontava tutto ciò che avveniva nella nostra famiglia». Assai diverso era il rapporto di Peppino con la sorella più piccola, Marietta, quanto mai viziata ed egoista al punto da far man bassa di tutti i beni famigliari, complice la madre, che alla fine lei abbandona al suo destino, facendola morire «povera e pazza» fra le braccia dell’unico figlio maschio. Il quale poi confesserà alla nipotina Emilia: «E quella fu l’unica volta che la strinsi a me». 
Il mosaico di quella saga familiare comprende delle figure minori. Ci limitiamo a ricordare i cugini (figli di un fratello della madre): Brigida, primo amore platonico di Peppino adolescente (più giovane di lei di circa 13 anni), che muore zitella di tisi; Bastianazzo, che per non fare più il pastore, dopo la morte del padre lascia il paese per emigrare come tanti altri compaesani in America, ma non ci riesce per mancanza di denaro e si ferma a Palermo dove sopravvive per diversi anni vendendo caramelle. Sarà poi Peppino a farlo tornare in paese da sua madre, la zia Concettina, che dopo la morte di Brigida era rimasta sola.
È appena il caso di aggiungere che il paese di Bastianazzo è lo stesso dove è nato Peppino, il cui nome non viene mai citato nel libro: si sa solo che si trova sulla linea ferrata che da Palermo porta a Trapani. In privato l’autrice non fa tuttavia mistero che si tratti di Capaci, piccolo centro limitrofo alle borgate occidentali dell’antica capitale del regno, il cui corso principale terminava ai piedi della scalinata della chiesa Madre. «Il paese era povero e molto silenzioso – racconta nonno Peppino –; alcune vecchiette ricamavano davanti all’uscio di casa, i bambini giocavano con la fionda e i sassi, le galline ruzzolavano per strada e qualche vecchietto intrecciava foglie di palma nana e canne per realizzarne cesti. Gli unici rumori erano quelli procurati dagli zoccoli dei muli che calpestavano il selciato e a volte, da lontano, si sentiva il canto dei carrettieri, mentre d’inverno giungeva il rumore del mare e il vento ne portava anche il suo profumo».
Ora, a parte il lirismo della descrizione, che ha il sapore di un inno alle radici, è fuor di dubbio che le stesse caratteristiche si riscontrano in altri paesi costieri dell’Isola. Eppure Capaci è sempre stato un paese diverso da qualsiasi altro centro siciliano. Già alla fine del Settecento Carlo Gastone, conte della Torre di Rezzonico notava che a Capaci, «miserabile terricciola di circa 3 mila anime», c’erano «molti ricchi pel commercio delle manne, e d’altri generi, fra’ quali le opunzie [fichidindia] non erano le minor derrate […]. Esaminai lungamente il frassino, che dà manna, e le sue orizzontali incisioni, e le foglie di opunzia [pale di fichidindia] che ne ricolgono il mellifluo liquore. Di questo ne vidi due sorte; l’una più commendata per essere la prima lacrima in lunga cannella repressa; e l’altra men buona, e men dolce al palato, ma più a’ medicinali usi profittevole». 
Con il passare del tempo i ricchi esportatori cominciarono a diminuire e parecchi di loro trasferirono la residenza in città o andarono a investire altrove. Ma in paese si registrarono nuovi arricchimenti di commercianti di ‘ntrita’ (mandorle sgusciate) e sommacco, che si esportava in Francia e in Inghilterra, dove esistevano diverse industrie tessili che utilizzavano le foglie della preziosa pianta officinale come colorante. Non pochi contadini divennero venditori ambulanti. Continuò a vivere di commercio la stragrande maggioranza degli emigrati del paese sparsi nel mondo. Una leggenda metropolitana vuole che il 12 maggio 1926, quando Umberto Nobili arrivò al Polo Nord fu accolto da un “capaciuotu”: cosa che la dice lunga sull’eco che poteva avere avuto, quanto meno nel Palermitano, la notizia che tra coloro che nel 1899 si erano imbarcati assieme al duca degli Abruzzi c’era un ragazzo di Capaci. 
Tratteggiata così la dimensione geopolitica, reale e virtuale, del paese di Peppino, è forse più facile avventurarsi nell’esplorazione di «quel paese senza nome, nascosto nel cuore» di sua madre, donna Paolina, commerciante avida, sensale di case, terreni e matrimoni, che teneva in un pugno gli altri membri della famiglia, a cominciare dal marito, un ex ufficiale del Corpo dei Reali Carabinieri di Sardegna che, avendo subito un danno permanente ad una gamba, era stato collocato d’imperio in concedo illimitato e ammesso al beneficio di gestire una bottega di Sali e Tabacchi a Capaci. Lo sfortunato uomo, racconterà il figlio Peppino con le parole di Emilia Merenda, «dopo il congedo forzato, era diventato un perdente e per evitare lunghe discussioni che si protraevano per giorni e giorni, si piegava sempre al suo volere. Nel suo viso si leggeva un’aria di tristezza e rassegnazione». 
La vera vittima sacrificale della famiglia divenne, però, già nella più tenera infanzia Peppino, bimbo fin troppo gracile e affetto da una malattia sconosciuta e talmente grave che ad un certo momento il medico sentenziò costernato prossima la sua fine. «La mamma – potrà per fortuna raccontare da vecchio il piccolo ammalato – per non incorrere a difficoltà improvvise, si recò dal falegname e gli ordinò di confezionare la cassa da morto. Ma proprio quella volta il suo istinto da affarista la abbandonò e dopo la mia inaspettata guarigione, non trovando altri modi per sbarazzarsene, senza rimetterci del denaro, per un paio di mesi la collocò sotto il letto: chissà una ricaduta!». La ricaduta però non ci fu, per la provvidenziale intercessione San Giuseppe, che, a detta della madre, fece guarire l’innocente infermo. «Circa sei mesi dopo – aggiungerà nel suo racconto alla nipote il miracolato –, sia per le continue lamentele di papà e anche per la mia totale guarigione, che non lasciava più dubbi su una probabile ricaduta, la mamma fu costretta a rassegnarsi e a malincuore mandò indietro la bara rimettendoci parte del denaro».
Seriamente preoccupata che, “delicato” com’era per la sua salute cagionevole, il bimbo non avesse potuto svolgere mai un vero lavoro e che sarebbe stato anzi d’intralcio alla sua marcia trionfale sul sentiero dorato dell’arricchimento facile, quando Peppino aveva sei anni, donna Paolina lo destinò alla carriera sacerdotale. Con un figlio prete, pensò, non avrebbe mai ottenuto nessuna ricchezza, ma si sarebbe comunque accreditata agli occhi dei clienti come la madre di un “parrinu”, cosa che avrebbe avuto poi le sue preziose ricadute positive sul volume degli affari. Il suo progetto aveva un vero e proprio punto di forza nel fatto che lei era cugina dell’arciprete del paese, che si prestò volentieri ad accoglierlo in casa per prepararlo all’alta missione di ministro di Dio. «Rimasi con l’Arciprete per quasi otto anni – racconterà Peppino –, durante i quali studiai tanto: imparai il latino, la grammatica, la geografia, l’aritmetica e lessi tanti libri. Anche se fuori dalla famiglia, quel periodo con l’Arciprete fu abbastanza piacevole. A me interessava principalmente apprendere; ero curioso e attento e l’unico momento che mi prendeva la nostalgia era quando pensavo a mio padre». Le cose si complicarono di brutto quando, divenuto alto e robusto e dotato di una voce baritonale, durante la confessione Peppino rivelò al suo tutore e maestro che aveva cominciato a subire il fascino delle belle ragazze che frequentavano la parrocchia.
Apriti cielo! Il parente arciprete lo considerò uno scomunicato indegno d’indossare l’abito talare e lo rispedì alla svelta a casa, dove conobbe il vero volto di madre padrona di colei che l’aveva generato. Senza porre nessun tempo di mezzo, donna Paolina licenziò il garzone, cui erano affidati i compiti più pesanti per destinare a quelle incombenze il figlio. «Una volta la settimana – sono ancora parole che Emilia mette in bocca al nonno –, trascinando il carretto a mano, andavo alla stazione per prelevare la mercanzia che arrivava da Palermo e quando il locomotore sbuffando si fermava al casello, con un bel salto, salivo sopra il treno e incominciavo a mettere giù i sacchi pieni per poi ricaricarli sul carretto. Lo trasportavo con la sola forza delle mie braccia e la strada del ritorno mi sembrava più lunga». 
Né poteva riprendere bene fiato quando ritornava dentro la bottega. Poiché sua madre era impegnata soprattutto fuori per i suoi lucrosi affari di mediatrice di beni immobili e matrimoni, spettava a lui sistemare le varie merci e badare ai clienti, senza perdersi in inutili chiacchiere. «Essendo l’unico negozio del paese, c’era un continuo andirivieni, ma la sua espressione, anche davanti alla clientela, rimaneva sempre la stessa; era perennemente arrabbiata. Cambiava atteggiamento appena terminava l’affare, afferrava il denaro tra le mani e lo introduceva nella tasca del grembiule stringendolo forte […]. Ero l’unico figlio maschio e pertanto avevo il dovere di aiutarla dove occorreva faticare, ma non mi pesava il lavoro – confesserà Peppino – m’infastidiva invece la sua insoddisfazione che attribuiva al mio cattivo comportamento. Aveva la brutta abitudine, a volte senza un vero motivo, di colpirmi alle spalle con un grosso cucchiaio di legno. Sembrava di assistere alla stimolazione con il pungolo che i contadini esercitavano sugli animali da lavoro».
Stando così le cose, un giorno Peppino, che non era mai andato oltre il ristretto orizzonte del paese natio, appena allargato e ingentilito dalla vista del mare oltre le dune costiere, tentò di affrancarsi dalla schiavitù della madre presentando domanda d’ammissione ad un corso di macchinista navale indetto dall’Istituto Reale di Marina Mercantile di Palermo. E, quando meno se l’aspettava, ricevette una raccomandata con la quale gli veniva notificato l’accoglimento della richiesta, che gli consentì di conseguire, dopo nove mesi, l’agognato diploma, in forza del quale poté poi sbarcare in vari porti del mondo. A farlo imbarcare nell’avventuroso viaggio verso il Polo Nord furono poi la sua voce baritonale (apprezzata dal tenore Enrico Caruso) e le sue competenze culinarie per cui fu assunto come aiuto cuoco dell’equipaggio del duca degli Abruzzi.
Ritornato in Sicilia, Peppino fu assunto come macchinista delle ferrovie. «Un altro sogno si avverava – confesserà –: quel treno che tante volte mi aveva fatto sognare la libertà, adesso mi apparteneva e a condurlo ero proprio io». Oltre allo sbuffante veicolo di libertà, il giovane trovò anche l’amore di Teresa, la sua sposa, dolce compagna della sua vita e madre dei suoi figli. Ma il rapporto con la madre e con la sorella Marietta non migliorò affatto. L’uomo dovette continuare a bere l’amaro calice, goccia a goccia fino alla feccia. Un bel romanzo, insomma, che si presta a diverse chiavi di lettura ed offre spunti di riflessione a chiunque abbia la fortuna di leggerlo e apprezzarne le molteplici valenze culturali e umane.
Senza possedere necessariamente le competenze e gli strumenti di analisi dello psicologo, del sociologo o dell’antropologo, il lettore mediamente avveduto si rende subito conto che l’opera di Emilia Merenda è una miniera d’informazioni su comportamenti individuali e sociali, usi, costumi, tabù e credenze superstiziose del popolo siciliano dell’epoca preindustriale. Vi rinviene episodi illuminanti sulla concezione del mondo e delle relazioni umane delle generazioni passate e il loro modo di rapportarsi all’intero ciclo della vita, dalla nascita, al battesimo, al matrimonio, alla morte. Si accosta, senza accorgersene, a quei riti di passaggio studiati all’inizio del Novecento da Arnold Van Gennep, apportando un inedito rinnovamento nell’approccio antropologico alla decodifica dei rituali magico-religiosi. 
Ora, non volendo anticipare altri passaggi nodali del romanzo, che il lettore scoprirà per certo e apprezzerà da sé, con la propria sensibilità e la propria cultura, cogliendo magari qualche sfumatura di più rispetto a chi scrive, è forse il caso di tentare di addentrarsi nel pensiero più profondo del nonno narrante, che si riscontra non solo e non tanto nell’affascinante rappresentazione verbale del proprio vissuto, quanto nelle involontarie esternazioni delle ansie e delle speranze annidate nel suo subconscio ed evocative del senso di precarietà e smarrimento con cui è stato costretto a convivere il genere umano sin dalla notte dei tempi. Per portare un esempio, si apprende dal libro che, ovunque si trovasse, alla prima goccia d’acqua piovuta dal cielo, Peppino sentiva il bisogno di recitare, con cantilena tipica dell’orazione religiosa: “Signiruzzu, chiuviti, chiuviti, i campagneddi su morti di siti e mannatini una bona senza lampi e senza trona”.
La preghiera si riscontra, sia pure con qualche variante, in tutta l’Isola. A Villafrati e nella stragrande maggioranza della Sicilia del grano la pioggia veniva invocata a beneficio dei “lavureddi”, i campi seminato a grano ancora in erba, dai quali dipendeva la sopravvivenza delle comunità. Nel testo cantato da Rosa Balistreri sono beneficiari “l’arbulicchi”, gli alberi da frutto, che in molte plaghe siciliane hanno una presenza monocolturale (agrumeti, vigneti, oliveti, etc). Orazioni analoghe, rivolte anche ai Santi e a divinità non cristiane, si riscontrano in ogni parte del mondo. Ma la sostanza non cambia. Ovunque si invocava la pioggia lo si faceva con sincera devozione, ma anche con spirito negoziale, do ut des, per capirci. Se il Santo o la divinità non mandava la pioggia veniva sanzionato rigorosamente.
«I Cinesi – scriveva alla vigilia della prima guerra mondiale James George Frazer – sono abilissimi nell’arte di prendere d’assalto il regno dei cieli. Se la pioggia non arrivava, fabbricavano un enorme drago di carta o di legno che raffigurava il dio della pioggia, e lo portavano in processione; ma, se continuava a non cadere una goccia d’acqua, il finto drago veniva maledetto e fatto a pezzi. Alcune volte, minacciano e percuotono il dio se non accontenta la loro richiesta; altre volte lo spodestano formalmente dal rango di divinità. Se invece la pioggia agognata finalmente arriva, il dio viene promosso ad un rango superiore per decreto imperiale». Le cose non andavano in modo diverso nell’Europa cristiana.
Con riferimento alla Sicilia, tralasciando i modi in cui venivano osannati i santi che facevano piovere su richiesta dei fedeli, ci limitiamo a ricordare le punizioni che ricevevano in caso di negativa. A Modica San Paolino da Nola, protettore degli ortolani, veniva gettato nel fiume e tempestato di pomodori in faccia. A Palermo nel 1893, i contadini che non avevano tralasciato nulla per ingraziarsi San Giuseppe alla fine «lo scaraventarono in orto perché vedesse con i suoi occhi come stavano le cose, e giurarono di lasciarlo lì, sotto il sole, fino a quando non fosse caduta la pioggia. Altri santi furono messi faccia al muro come bambini cattivi. Altri ancora spogliati dei loro ricchi paramenti, furono esiliati lontano dalla loro parrocchia, minacciati, insultati pesantemente, buttati negli abbeveratoi. A Caltanissetta, all’Arcangelo San Michele vennero strappate dalle spalli le ali d’oro e sostituite con ali di cartone; gli fu tolto il mantello rosso, e venne avvolto invece in un cencio. A Licata S. Angelo, il santo patrono se la passa anche peggio perché fu lasciato senza vesti del tutto; ingiuriato, incatenato e minacciato di finire affogato, o appeso ad una forca. “O la pioggia o la corda”, gli urlava contro la gente furibonda, agitandogli i pugni in faccia»: parola del solito Frazer. Ho voluto accennare a questi fatti (che oggi potremmo considerare barbarie) per tre motivi: 1) per dimostrare che la preghiera che Emilia aveva sentito tante volte recitare dalla viva voce di nonno Peppino non è una mera anticaglia: racconta tuttora l’eterna trepidazione dei nostri antenati che consideravano le siccità come anticamera delle carestie; 2) perché la religiosità popolare che traspare dal romanzo somiglia molto a quella dei contadini che sfilavano in processione per implorare la pioggia; 3) perché “Un paese senza nome” narra soltanto una parte del mondo che Emilia vuol far conoscere alle nuove generazioni. 
Per restare nell’argomento dell’orazione per pioggia, l’autrice mi ha riferito che sua nonna Teresa (palernutana), quando il marito esclamava “Signiruzzu chiuviti chiuviti…”, gli faceva immediatamente eco: «Lampi e trona itivinni arrassu, chista è casa i Santu Gnaziu, Santu Gnaziu e San Simuni, chista è casa i nostru Signuri». Orazione, che racconta una paura diversa, ma pur sempre afferente alle strategie di sopravvivenza: la paura di morire annegati, com’era successo agli alluvionati di Palermo nel 1931. Tutto ciò lascia sperare che a questo romanzo segni l’inizio di una lunga serie fortunata. E i presupposti ci sono.
Pippo Oddo 
Palermo 11 febbraio 2018

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