lunedì, febbraio 19, 2018

"Liturgia degli anni" di Giovanni Perrino

di LUIGI CELI 
Giovanni Perrino, originario di Corleone, già insegnante di lettere nelle scuole superiori e dirigente scolastico con un'esperienza di direzione delle scuole italiane in Russia, ha prodotto anche importanti raccolte di poesie, apprezzate dalla critica, ottenendo anche significativi riconoscimenti. La sua ultima "fatica" è questa "Liturgia degli anni", di cui pubblichiamo l'immagine di copertina ed un'importante recensione di Luigi Celi. 
(G. Perrino, Liturgia degli anni, Raffaelli Editore, Rimini 2017)
Liturgia degli anni è un titolo che può sorprendere, dato l’orientamento laico di Giovanni Perrino, ma la scelta è così spiegata dall’Autore: “La liturgia, nel lessico e nella cultura greca, Λειτοủργία, era il servizio pubblico, il complesso di leggi civili e militari che servivano al popolo per la pacifica convivenza (...)”, per il “bene comune”. Così se rispetto all’interpretazione corrente, legata al rito cristiano, abbiamo uno spostamento semantico, tuttavia - a mio avviso - ciò non elimina del tutto il significato sacrale, di celebrazione, che il termine “liturgia” possiede.

La silloge si divide in tre sezioni, la prima rinvia - scrive Perrino, ne la Nota dell’Autore - al secondo e terzo libro delle Metamorfosi di Ovidio e s’intitola: Frammenti dal ciclo tebano. La Nota segue l’interessante, acuta Prefazione di Giuseppe Manitta, e chiarisce come quest’opera attinga alla mitologia per quanto possa fornire metafore politiche e filosofiche: la città di Tebe è figura di ogni società che ha avuto origine dalla violenza e che a una fine violenta sembra destinata - “Tebe la martire città di morti insepolti” (p. 77)-; tuttavia “Nei segni e nei disegni delle numerose faglie” che caratterizzano “la situazione storica ed esistenziale dell’uomo contemporaneo”, nell’“ordito geografico” che i versi ricostruiscono, la “ricerca del varco”, che nasce come “esperienza interiore”, costituisce l’antifrasi di una possibile salvezza (cfr. p. 15).
Il “varco” è necessaria via di fuga dal labirinto, dalla condizione di coazione in cui l’uomo contemporaneo sembra versare: la poesia, il suo sogno, sono dunque come un filo d’Arianna. Nella poesia Di Notte  leggiamo: “Nel foglio di note disegno le parole del sogno”. I miti innestano tra veglia e sogno una discrasia. Sappiamo che per i greci ci sono sogni veritieri e sogni ingannevoli. Per Omero “Sogno” è una divinità minore, figlio della Notte, fratello della Morte. Il sogno mandato ad Agamennone - nel secondo libro dell’Iliade - gli preannunciava l’imminente caduta di Ilio, che però non si è verificata, ad esso, infatti, è seguita una rovinosa sconfitta. Tuttavia nell’opera di Perrino il sogno della poesia si fa anche da svegli allontanando il sonno, ciò è antidoto contro le crudeli illusioni della realtà: “Sotto il cuscino ripongo lanterne profumate/ Oggetti di giardino e orpelli contro il sonno/All’ora convenuta l’aria notturna vanifica il sacro/ per mostrare con ogni crudeltà la sua vana bellezza” (p.22).
Le immagini di questa raccolta sono sinestesicamente intrecciate, ne fa fede quel bellissimo “lanterne profumate”; i sensi sono convocati insieme perché la parola abbia un corpo vivo. Perrino dipinge il suo sogno e riproduce in ombra-luce i colori, le forme, come un artista: “Rincorro il sogno dalle ore prime dell’alba/ Aggrappato come naufrago al suo scoglio/ La luce di Turner torna ad avvolgere case/ E litorali di nere sabbie e cavalli...” (p.27).
Ritorniamo, per un breve tratto, alla liturgia, al sacro; esso, come il sublime, è per lo Pseudo Longino “eco della grandezza interiore”; varchiamo per un istante la porta delle emozioni che questa poesia suscita, ed ecco troviamo il sacro velato nella liturgia dei ricordi. Seppure Perrino rimanga fedele al suo materialismo lucreziano, cioè tende con l’intelletto a vanificare il sacro, non può evitare di mantenerne l’aura. Con buona pace di Walter Benjamin, l’“aura” della poesia non può essere soppressa, neppure nell’“Epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte”, senza distruggere con ciò la poesia come genere. La poesia che pure lucrezianamente vorrebbe “contrastare le superstizioni e insieme le minacce dei vati” (“religionibus atque minis obsistere vatum” – De rerum natura, 109) è vincolata alla sua funzione liturgica. L’inconscio vince sulla coscienza, sul freddo intelletto. Giovanni Perrino, come e con Lucrezio, anche quando abbassa i toni, non rinuncia all’ardore della parola alta ed elegante, quella che è anche dei tragici greci e di altri poeti latini... Troviamo nei suoi versi l’influsso di Stazio, la Silva nell’intreccio dei versi, il viluppo sincronico di rimandi storici e geografici, lo “gliommero” di vita ed esperienza.
Lo stile di questa poesia è classico, senza essere d’imitazione, risente della raffinata eleganza di Virgilio, dell’epica di Omero, del metamorfismo di Ovidio. Il viaggio reale si muta in categoria onirica, trasfigurato, sublimato si fa poesia, diviene “Viaggio sottile affilata lama ai confini del sé (...). Per altro ciò segna “il ritmo e il cammino a ritroso” (p. 29). Giovanni Perrino ripercorre i suoi esteriori, storici itinerari... si va dalla Russia ad un Iran interiorizzati, trasfigurati, così è pure per l’India, la Siria, il Portogallo; l’Italia è presente da Nord a Sud, in particolare la sua terra d’origine, la Sicilia. Il poeta penetra in profondo lo spirito panicamente metaforico e metamorfico dei luoghi: “Ove memoria aiuti a riconsiderare il tutto” (p. 29); egli tiene mirabilmente unite la natura e la storia degli uomini, partecipe e commosso per le grandi tragedie dell’umano. Soprattutto la seconda sezione della raccolta, intitolata Benat’nash (Le fanciulle in lutto) rivisita e metaforizza il tragico.  Benat’nash è il nome arabo della costellazione dell’Orsa Maggiore, per cui - ci spiega l’autore - la più splendente delle stelle del Grande Carro, Alkaid (in arabo), è “il capo delle figlie della bara”, queste sarebbero le altre due stelle Mezar e Aliot, dette, sempre dagli arabi, “le fanciulle in lutto”. La bara sarebbe il Carro. Benat’nash, scrive sempre in Nota G. Perrino, “è il canto funebre per una liturgia che declina il dolore”. Nelle poesie della sezione si fa riferimento alle guerre e alle sofferenze che esse producono, ma già della guerra si parla nella prima parte del libro, in relazione ai luoghi delle battaglie della prima guerra mondiale; altre poesie sono dedicate ai luoghi, al terremoto del Belice, al Cretto di Burri, ai posti delle memorie del poeta. Due poesie sono dedicate al bambino siriano Aylan, “Il bimbo avvinghiato dal gorgo nero”, morto sulle spiagge turche nel 2015 (p. 70 e p. 82). Altri intensi versi - da p. 71, in successione - sono per i migranti, per i morti nella difficile impresa di sfuggire alla guerra e alla povertà. Una poesia è dedicata ad Halab, Aleppo, città siriana martoriata dalla guerra (p.75).
Non seguiamo minutamente il percorso esperienziale e mnesico del poeta, la rivisitazione dei luoghi del suo vissuto, le descrizioni eleganti e coinvolgenti dei paesaggi e dei contesti sociali.
La terza parte del libro, La calda cenere, approfondisce i motivi sia del viaggio sia della memoria personale dei luoghi: la Grecia, la Siberia, la Russia, il Portogallo e Lisbona..., la Persia martoriata, Bagdad; senza un ordine preciso si ritorna in italia, a Cerveteri, Pyrgi; poi un commovente, coinvolgente testo è dedicato a Reyhaneh Jabbari, la giovane iraniana impiccata il 25 ottobre del 2014 per essersi difesa uccidendo l’uomo che aveva cercato di violentarla.
Una poesia, degna di note, a p. 108, quasi alla fine del libro, è dedicata alla madre che salva il figlio mentre sta precipitando afferrandolo per i capelli... “Eri sul ciglio – diceva – mi si è fermato il cuore”. Torneremo su questo motivo dello stare sul ciglio, in bilico, della poesia di Perrino.
Nella raccolta è fondamentale il tempo nel suo nudo fluire; esso è vuoto di senso antropologico, finché non genera la storia o non si fa rammemorazione degli “Anni”. Ogni rimando al tempo esterno, presente e passato, Perrino lo proietta sui luoghi, ma prima lo interiorizza. S’intrecciano storia e vissuto. L’io cerca di resistere all’assedio del noi e del mondo (“deposto il noi come stracci sporchi”), si ricompatta nei versi ma si ritrova ghiacciato nelle tracce orride e corrose del passato: “Nella mano l’arcolaio la fototessera/ Gualcita i contorni del tuo volto già segnato/ Fra orrori e guerre scivoli sul ghiaccio” (p. 30)... La storia non è solo quella personale; in Monte Grappa: “Cattedrali bianche il brillio di guerre e d’armi/ raccolta di braccia e d’occhi aperti al cielo” (p. 33). Memorie personali e famigliari si legano a personaggi emblematici dell’antifascismo, come i fratelli Cervi (Alcide Cervi), ai luoghi del Nord Italia e, in un’altro itinerario mnesico di tutt’altro segno, alla Primigenia Sicilia, perché “Non si lascia il ventre senza voltarsi a guardare” (p. 36).
In questa silloge la liturgia degli anni si celebra nel ricordo degli amici, della madre, del padre.
Un metronomo interiore misura il passo stesso del Nostos. Il ricordare (in Liturgia) è simile ad una anamnesi psicologica e sociologica, scava in profondità, anche tra le macerie, cerca la guarigione dai traumi con il sorriso dell’infanzia. “Fatiche del giorno da offrire all’alba/ Aerei movimenti sul cretto ove risuona/ Di bianco colore il lutto invernale/ Gennaio millenovencentosessantotto/ Luccicano nell’aria le bianche braccia/ Torna di sera ansante di fatiche e d’anni/ Il lamento chiuso nel sudario dei passi/ Bianche faglie scogli avvio di memoria/ Che la vita accoglie col sorriso dei bimbi...” (pp.57-58).
Il rimando mnesico all’esperienza del terremoto del Belice, come ai paesi in cui il poeta ha viaggiato fa di lui un minatore di memorie, un Wanderer che agisce in archetipo: torna in un utero di poesia ogni luogo in cui si è vissuti, ogni tempo. La poesia di Giovanni Perrino è la materializzazione (per se stesso e per chi legge) di un archetipo in un magma, in un bollore, in un rovello mercuriale. La febbre poetica si esercita sulle cose per una incisività chirurgica, si opera sulle disjecta membra della memoria e più profondamente, filosoficamente, sul senso dell’essere, minato, obliterato, nelle sue radici metafisiche, dal vissuto e dalla storia. Forse è anche per questo che non basta la rievocazione storiografica, né l’atteggiamento diaristico, occorre appellarsi al mito, anzi oscillare tra mito e realtà: “Tu Ganimede che fisso lo sguardo scali l’Olimpo/ (....) Sei tu il coppiere che disseta gli sbarcati (...)”. (p. 76). L’io poetante ritorna per “coazione a ripetere” su luoghi e fatti, su traumi, lacerti, rapporti infranti; i versi si innalzano tra le onde, l’anima migrante tra i migranti si aggrappa alla poesia come il naufrago Odisseo ad un relitto... Ora Amore e Amicizia sono posti in “liturgia”, il rito che la poesia celebra in anamnesis trasporta il tragico nella sfera della pietas e del cordoglio. La poesia assurge all’Archetipo e si fa memoriale di ogni Storia e Luogo. Gli “anni”, a cui il titolo di continuo rimanda, urgono nel loro bisogno di ritrovare una voce che ne esprima un necessario risorgere. Proserpina ritorna dall’Ade nella primavera della poesia, va incontro alla madre Cerere, che simboleggia il poeta e il nostro intimo lutto che si elabora in affannosa ricerca: “Superate le colline in vista delle terre piane/ cerca sua figlia la potente regina dei campi” (p. 25). È interessante leggere i testi della silloge con procedura circolare, tornare all’abbrivio in versi. Già dal primo componimento, da un “taccuino” di scabre note esce dal “guado” una “folla d’ombre”: è di luttuose anime dell’inconscio o di memorie dissepolte, come dall’Ade. I linguaggi degli storici e dei filosofi sono inadeguati per le esigenze del poeta e del mistico.: “La natura la casa del mistico il taccuino.../ Tieni a mente la carezza viso/E lo sguardo che non cogliesti.../ Quel nomignolo d’infanzia lontana/Che il silenzio restituisce ogni notte/Nelle sere di gelo in cui come asceta/ Sbircio ad oriente in cerca del guado dove/ Una folla d’ombre gioca con le rocce” (p.21).
La “folla d’ombre” preme sulla navicella di Caronte, dove è sospesa la diacronia del tempo; il tempo oscuro dello sfondo interiore, da cui emergono i versi, ora è sincronico, mentre la piena sturata dei “Sentimenti” e dei ricordi è arginata solo dalla misura del verso.
Queste poesie sono molto musicali; affidate totalmente al ritmo: gli ipermetri di 14/15 sillabe, che pure danno un andamento di racconto ai testi, hanno cadenze e accenti della metrica latina e greca, ma anche sono radicate nella tradizione italiana, con i doppi settenari e gli endecasillabi. I versi a volte sono pieni, conclusi in se stessi, altre volte s’inarcano per l’uso dell’enjambement, privi di punteggiatura si appoggiano sulla scansione metrica. La punteggiatura così diviene superflua.
La pausa è il vuoto che consente al pieno delle note di esistere. Dando alla forma un valore che trascende il mero aspetto iconico si oscilla tra senso e suono..., anche tra non senso e suono. Sentimenti franti, fatti sparsi di cronaca, eventi storici, pensieri e filosofie, in poesia non valgono nulla se manca il melos, la musica. L’oscillazione si dà forse, più profondamente, tra Essere e Nulla.
Heidegger chiamava “bilico”, ciò che fa della poesia un genere letterario a se stante, altro rispetto alla prosa. Questa oscillazione nel “Canto” poetico  determina una sostanziale apertura nell’εὓκυκλοϛ σϕαίρη, nella sfera ben arrotondata dell’essere, di cui già scriveva in versi Parmenide.
Nella raccolta di Giovanni Perrino leggiamo: “Porta la vita altrove oltre le onde della paura/ Le rughe sostano nel dire la notte del mare nero” (p.72). È il rovesciamento nell’Aperto, così come in Rilke, come in Heidegger, che equivale ad essere “gettati nel pericolo”. Essere in bilico è essere in pericolo, ma in questa condizione in cui ci pone la poesia acquisiamo a rebours, liturgicamente, negli “Anni”, forse in maniera non del tutto cosciente, sul “ciglio” tra presente e passato, qualcosa del mistero dell’essere e del tempo, dell’amore e del dolore, entriamo appunto ne “La notte del mare nero”.
C’è nella poesia di G. Perrino lo spirito tragico dei greci, l’anima di Empedocle ed Eschilo o di un più moderno Rilke. Rilke attribuiva alla poesia, in una sua Lettera del ’23, la capacità di attingere il cuore dell’Ente, “L’inaudito Centro, l’intero Bezug, l’intera Natura, la vita, il rischio”, in quanto “sono la medesima cosa”... L’eco animica di una poesia colta, come questa di Perrino, può raggiungere solo il lettore più consapevole ed avvertito. Osip Mandel’štam in Conversazioni su Dante poneva una analogia tra la respirazione fisiologica e la poesia della Commedia, cosa che  potrebbe valere anche al nostro caso: il “passo congiunto alla respirazione” è “saturo di pensiero”(...). “Il piede metrico è inspirazione, ed espirazione è il passo che deduce, vigila, sillogizza”. A Osip Mandel’štam, sia detto per inciso, Giovanni Perrino dedica un testo e ne riprende gli splendidi versi in una nota. E qui balza in evidenza l’affinità tra i due poeti, l’uso non sentimentale del mitologema, che fa da supporto simbolico al pensiero: “Resta schiuma, Afrodite,/torna musica, parola,/vergognati del cuore-cuore/fuso con il  principio della vita” (p. 24).
 Noi, vittime nell’oggi del vorticoso sviluppo ipertecnologico, prigionieri delle gabbie materialistiche dell’economia e della finanza che ci siamo costruiti da noi stessi, ricorriamo alla meno mercificata tra le arti. Già Carlo Marx aveva denunciato il carattere deterministico dell’economia e la marginalizzazione dell’umano. Gli uomini, per Marx, che con il lavoro (paradossalmente) creerebbero se stessi, sono in realtà, contraddittoriamente, mezzo, “forza lavoro” nella catena produttiva, merce sul mercato.
Ora Giovanni Perrino, un poeta che si richiama esplicitamente a Lucrezio e all’epicureismo nella sua forma nobile, non può non valorizzare il significato spirituale, antifrastico della poesia rispetto alla deriva tecnicistica e consumistica del moderno e del postmoderno.
E’ qui che si racchiude il senso vero di questa attualissima “Liturgia degli anni”.


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