venerdì, settembre 22, 2017

STORIA. I dannati delle zolfare siciliane...

di PIPPO ODDO
Inferno, inferno vero: metafora obbligata per chiunque abbia voluto descrivere l’ambiente delle zolfare siciliane, nei cui labirinti, oscuri e mefitici, si aggiravano spossati dalla fatica, sudati e spesso nudi, poveri diavoli e piccoli dannati di 8-10 anni, «sventurate creature» condannate «al rachitismo e alla deformità» per pochi spiccioli al giorno. Inferno che un tempo si annunziava già con l’aspetto del territorio circostan­te. E non risparmiava nemmeno l’area in cui sorgono, «in mezzo ad un paesaggio magnifico e desolato», i templi di Agrigento. «Tutto e morto – notava nella primavera 1885 Guy de Maupassant – arido e giallo, attorno ad essi, dietro e davanti ad essi. Il sole ha bruciato, mangiato la terra. Anzi è vera­mente il sole che ha corroso così il suolo, oppure il fuoco pro­fondo che brucia sempre le vene di quest’isola di vulcani? Poiché, dappertutto attorno a Girgenti. si stende la singolare contrada delle miniere di zolfo. Qui tutto è zolfo, la terra, le pietre, la sabbia, tutto […] Dopo la collina dei templi di Girgenti comincia una contrada stupefacente che sembra l’au­tentico reame di Satana, poiché se, come lo si credeva una volta, il diavolo abita in un vasto paese sotterraneo, pieno di zolfo in fusione, in cui fa bollire i dannati, è sicuramente in Sicilia che ha eletto il suo misterioso domicilio».
Inferno, ‘nfernu veru, di cui adesso rimane solo il ricor­do. Le zolfare sono tutte chiuse, in Sicilia. Irreversibilmente. «Ci sono ormai plaghe, rimanenze ischeletrite dove batte il vento», osserva Sebastiano Addamo. «Plaghe dove sono dis­seminati ferri contorti e arrugginiti, rottami e scorie di tutti i tipi, binari divelti, contenitori sventrati, carcasse inutili e turpi di quanto un tempo fu vita, attività e anche strazio; ci sono i resti di qualche calcarone ancora quasi intatto alla base ma ormai demolito, un forno Gill, gli uni e l’altro immagini di un popolo sconfitto e ormai sfuggito; i brevi casamenti che erano usati come botteghe e depositi, ridotti a cumuli di pie­tra».
In mezzo a un così desolante ammasso di rottami si nota­no alcune discenderie, quelle «tane di lupo» immortalate dalla penna di Giovanni Verga, attraverso le quali una volta si accedeva al sottosuolo. Non lontano da questi buchi s’incon­tra ciò che resta degli ultimi cumuli di rosticci di zolfo (ginisi) in mezzo ai quali comincia tuttavia a crescere, come sulle vecchie tombe, l’erba. Altri segni del passato minerario si rin­vengono sorprendentemente nei salotti di certa borghesia inurbata non priva di sensibilità estetica, dove sono finiti molti degli oggetti di cui amavano circondarsi le famiglie degli zolfatari: statuette raffiguranti la Madonna o i Santi, ma anche cavallucci, cagnolini, pesci, scarpette e quant’altro poteva esser plasmato con lo zolfo fuso che i minatori face­vano colare negli stampi in gesso da loro stessi realizzati. A ricordare la lunghissima vicenda estrattiva sono inoltre le splendide cristallizzazioni di zolfo e di altri minerali che i minatori, per dirla con Leonardo Sciascia, avevano tratto fuori da «quelle nicchie millenarie», conosciute a Racalmuto come garberà o varbere, per portarsele a casa, «ad adornare il canterano, tra le tazzine del caffè e la statuetta della Madon­na o del Santo Patrono».
Le vie dello zolfo raggiungono insomma persino gli angoli più insospettati ed esclusivi della realtà siciliana. Documentano l’estro creativo e il gusto del bello coltivato dai dannati delle zolfare. Testimoniano di una vicenda produttiva tutta siciliana iniziata nella notte dei tempi.
Gli scavi archeologici praticati tra il 1987 e il 1997 alle pendici meridionali del Monte Grande (al confine tra i terri­tori comunali di Agrigento e Palma di Montechiaro) hanno riportato alla luce alcune strutture per l’estrazione e la lavo­razione dello zolfo risalenti all’età del bronzo. Anche Colle Madore, piccola collina nei pressi di Lercara Friddi. «appena più elevata su di un panorama di altre colline degradanti verso le valli», vanta un passato minerario con radici preisto­riche. «Non vi è dubbio che qui – scriveva nel 1998 il pove­ro Carlo Romano – fosse insediata una comunità indigena, certamente sicana, dedita alle attività agricole e silvo-pastorali, al commercio ed a un sia pur primordiale sfruttamento delle risorse naturali, prime fra tutte lo zolfo». Nella sua Sto­ria della Sicilia antica Finley sostiene che sotto l’impero romano Agrigento fu «il centro della nuova industria dello zolfo, la cui estrazione, monopolio dell’imperatore, era attua­ta attraverso concessioni». La sua tesi è confermata dai reper­ti epigrafici delle tabulae sulphuris (conservate nei musei di Agrigento e Palermo) da cui si evince che alla fine del secon­do secolo d.C. erano attive alcune miniere imperiali nelle quali lavoravano schiavi e delinquenti comuni.
Sappiamo inoltre da Michele Amari che l’attività estratti­va fu pure fiorente in epoca araba. A mandare avanti il lavo­ro nelle miniere erano i «picconieri», capaci di maneggiare il giallo metalloide e perciò fortemente esposti al rischio di «perdere i capelli e le tigne». Ma per fortuna a volte capitava «che lo zolfo scorresse liquefatto, onde bastava loro scavare dei fossarelli e quando era rappreso lo tagliavano con le accette». Quasi nulla sappiano invece della considerazione in cui era tenuto il biondo minerale dai Normanni che, com’è noto, scacciarono dall’Isola gli Arabi. Tutto lascia però cre­dere che per secoli nessuno si sia più occupato di miniere di zolfo, finché l’invenzione e la diffusione della polvere da sparo non alimentò, come ha scritto Giuseppe Barone, «una limitata produzione, documentata da permessi di ricerca rila­sciati dai sovrani e da contratti privati per la coltivazione di cave o pirrere superficiali».
All’inizio del Settecento nell’Isola erano attive appena sei miniere, alle quali se ne sarebbero aggiunte altre cinque verso la metà dello stesso secolo. Di una di queste, ricadente nella provincia di Caltanissetta, si tramanda una leggenda che la vorrebbe nata in seguito a una curiosa scoperta di un pastore che si trovava in riva ad un fiume con il proprio gregge. Pro­vando ad accendere il fuoco accanto a una «pietra gialla», l’i­gnaro guardiano di pecore sentì un odore sgradevole, acre, quasi infernale. E subito dopo si vide circondato da spaven­tose fiamme. È superfluo aggiungere che per qualche tempo i contadini e i pastori del luogo si guardarono bene dall’ avvi­cinarsi alle «pietre gialle».
La paura svanì nell’ultimo decennio del secolo dei lumi, dopo che fu brevettato il metodo Leblanc (1791), che con­sentiva di fabbricare la soda mediante la decomposizione del sale comune trattato con l’acido solforico. L’importante sco­perta segnò la nascita della moderna industria chimica e, di conseguenza, anche della domanda internazionale di zolfo siciliano. «Ed ecco – osserva Vincenzo Consolo – che le sot­terranee divinità plutoniche, signore delle tenebre e della morte, si trasformarono in benigne divinità della speranza. Il mito si distrugge, si razionalizza, i pozzi e le gallerie che inseguono la vena gialla dello zolfo non nascondono più paure metafisiche, ma reali, concreti pericoli di crolli, d’alla­gamenti, di scoppi, d’incendi». Ma tutto ciò faceva parte del conto: era un prezzo da pagare non già a Satana, ma al dio progresso. Dove c’erano o si riteneva che ci fossero tracce di «pietra gialla», lì cominciò ad arrivare il piccone del contadino.
«La febbre dello zolfo – cito ancora Consolo – prende tutti, proprietari terrieri, gabelloti. partitami, picconieri, com­mercianti, bottegai, magazzinieri, carrettieri, artigiani, arditori, carusi; attira già avveduti stranieri, esperti di speculazioni e di profitti». Redini di sei o sette muli, carichi di zolfo, gui­dati da bordonari e da carusi, cominciano a far la spola tra le zolfare e i porti di Girgenti, Licata e Catania.
L’avvio di questa frenetica attività non fu certo dei più semplici: bisognava attraversare le impervie e solitarie con­trade della Sicilia interna, prive di vere strade, a malapena servite da vecchie trazzere, strette e disselciate, polverose d’estate e fangose nella brutta stagione. Gli stessi porti versa­vano in pessime condizioni e i velieri diretti in Francia e Inghilterra potevano esser caricati solo al largo. Girgenti. il principale punto d’imbarco dello zolfo siciliano (assicura Denis Mack Smith), «aveva ricevuto denaro nel diciottesimo secolo dal suo vescovo per costruire un frangiflutti con le rovine del tempio greco di Giove, ma nel 1840 l’opera non era ancora terminata: le operazioni di carico erano estrema­mente lente e dispendiose, ed erano necessari quattrocento scaricatori anche per una piccola nave, mentre molti ergasto­lani lavoravano continuamente per mantenere il porto libero da banchi di sabbia».
Non per questo, però, l’industria estrattiva ci mise troppo tempo a decollare, specialmente dopo il 1808. quando re Fer­dinando decise, per motivi attinenti alle guerre napoleoniche di rinunciare ai propri diritti di monopolio sulle miniere. Un roseo avvenire si schiuse allora per i proprietari terrieri e per quanti ebbero naso per fiutare l’odore dei quattrini. Emble­matico è il caso citato da Adolfo Rossi nel 1894: «A poco più di tre chilometri da Caltanissetta si trova un gruppo impor­tante di zolfare, la maggior parte delle quali appartengono al deputato Testasecca, creato conte per la cospicua donazione che fece ai poveri in occasione delle nozze d’argento dei sovrani. I nonni del neo conte erano dei poveri borghesucci quando verso il 1830 comprarono per pochi soldi alcune col­line di quei dintorni. Erano colline superficialmente molto povere, ma che nel loro seno racchiudevano tesori. E infatti appena se ne accorsero e cominciarono a sfruttarle, i genitori dell’onorevole Testasecca divennero in pochi anni arcimilionari».
A render possibili questi rapidi arricchimenti fu anche una legge borbonica del 1826.in forza della quale i proprie­tari terrieri potevano sfruttare le risorse del sottosuolo, previo pagamento di una modica tassa detta di aperiatur. Fiumi di denaro andarono così ad impinguare la rendita mineraria del baronaggio. Ma non tutti i “Gattopardi” si comportarono in modo intelligente. Al contrario, solo pochi di questi signori ebbero la lungimiranza di non frantumare i loro giacimenti di zolfo e di promuovere l’apertura di grandi miniere: i Lanza di Trabia per la Zolfara Grande e la Zolfarella a Sommatolo, i Pigliateli] Fuentes per la Tallarita a Riesi, i Sant’Elia per la Grottacalda a Piazza Armerina, i Pennisi per la Fioristella a Valguarnera, i Morillo per la Trabonella a Caltanissetta, i Monteleone per la Lucia a Favara, i Villafranca per il gruppo Zimbalio, Panche e Ogliastrello ad Assoro, gli Spitaleri per la Muglia a Centuripe.
La maggior parte dei latifondisti (sostiene Giuseppe Barone) «preferì suddividere lo stesso bacino in decine di piccole concessioni che moltiplicavano il valore della rendita fondiaria nel breve periodo, ma depauperarono irrimediabil­mente il giacimento: l’esempio forse più noto e quello dei duchi di Notarbartolo di Villarosa che in pochi decenni por­tarono alla rovina il vasto bacino minerario dei comuni di Santa Caterina, Villarosa e Calascibetta. In molti casi, lo smi­nuzzamento della proprietà superficiale faceva sussistere pre­cari sistemi condominiali: la zolfara Piraino del gruppo Colle Croce a Lercara su un’estensione di 8.627 mq contava 361 comproprietari ripartiti in 58 famiglie, e nella zolfara Roma­no dello stesso gruppo figuravano un proprietario per 3/24. più 2/6 di 1/24 e così di seguito da rendere assai complicati i contratti di gabella».
Ma la realtà lercarese non era affatto assimilabile a nes­sun altro bacino minerario dell’Isola, se non altro perché a Lercara Friddi l’avventura estrattiva era iniziata solo nel 1832 e con grande stupore del principe di Palagonia, già titolare di giurisdizione sul paese. Don Francesco Paolo Gravina, a dire il vero, non era un nobiluomo così distratto da disinteressarsi delle risorse sotterranee delle sue proprietà. Già nel 1821 aveva avviato a proprie spese delle ricerche nelle terre dette li cumuna, residuo delle quattro salme che un suo antenato aveva assegnato, spiega Giuseppe Mavaro, «non in proprietà, ma in uso, alla comunità agricola che voleva fondare». Ma i sondaggi avevano dato esito negativo. Il principe fu quindi colto di sorpresa quando seppe che, sotto la superficie delle terre limitrofe a li cumuna, era stato scoperto tanto zolfo da attirare massicci investimenti di intraprendenti imprenditori inglesi come Gardner e Rose.
Ma le sorprese non erano ancora finite: il nobiluomo avrebbe presto scoperto che tra i gestori delle zolfare di Ler­cara c’era pure un altro illustre negoziante straniero domici­liato nella capitale dell’Isola, tal Eco Hister, «Console di Sua Maestà Prussiana». Comunque, vuoi perché si sentiva rodere dall’invidia, vuoi perché non era del tutto insensibile ai pro­blemi dei suoi ex vassalli, l’ex signore di Lercara sulle prime sostenne a spada tratta le ragioni della cittadinanza che prote­stava contro la combustione illegale del minerale di zolfo denunciando «la fondata minaccia alla salute pubblica per l’aria irrespirabile molto più per essere alcune di queste mac­chine attaccate all’abitato e vani giorni sono costretti gli abi­tanti di detta Comune a serrarsi in casa per non esporsi al pericolo di venire soffocati».
Poi successe un fatto che gli fece cambiare radicalmente opinione. Inseguendo una vena di zolfo, un piccolo impren­ditore aveva prolungato la galleria della propria miniera scon­finando nel sottosuolo di li cumuna che si rivelò più ricco di quanto egli stesso pensasse. Per tutta risposta il sindaco di Lercara. Antonino Giglio e Sartorio, fece approvare dal decurionato (consiglio comunale) una delibera volta a ripristinare gli originari confini divisori e a far pagare i danni al padrone della zolfara. Venutone a conoscenza, il principe ordinò nuovi sondaggi e si rese conto del reale valore delle terre comuni. Non perse perciò tempo a rivendicarne la proprietà. Il sinda­co e il decurionato si opposero, ma inutilmente: l’intendenza diede ragione al principe e poco dopo nominò un nuovo sindaco. Il nobile paladino della salute pubblica ebbe quindi gioco facile nel chiedere e ottenere l’autorizzazione ad apri­re, vicino al paese, nelle terre dette li cumuna, una zolfara che diede in gabella a don Vincenzo Florio.
Nonostante il clamoroso voltafaccia, il principe riuscì tuttavia a mantenere integra la propria immagine. A fornir­gliene l’occasione fu il colera del 1837, che scoppiò pochi mesi dopo. Il nobiluomo ci mise però anche qualcosa di suo: fece venire due Cappuccini da Palermo per l’assistenza spiri­tuale ai colerosi che rifornì di cibo e medicinali, ma anche di «tutti gli utensili per la fornitura dell’ospedale, consistenti in letti, vasi, bicchieri, stoviglie e tine per bagni».
Ma tutti i proprietari di zolfare, siciliani e stranieri, catto­lici, protestanti e miscredenti, erano bravi a farsi perdonare i loro peccatucci con opere caritatevoli e concreti sostegni alla santa chiesa. In tempi normali investivano una «fusa» di zolfo all’anno a gloria del Santo Patrono, certi di ricevere in cambio la protezione delle locali gerarchie ecclesiastiche. E non si sbagliavano. La gente che protestava contro la combu­stione selvaggia dello zolfo veniva messa a tacere dai preti che enfatizzavano i benefici apportati dalle miniere. Sicché gli industriali potevano continuare a fare quello che voleva­no, ridendo in faccia a sindaci e magistrati zelanti, filantropi e sottointendenti.
L’illegalità regnava sovrana in lutti i comuni minerari. La legge proibiva la combustione del minerale vicino ai campi coltivali e a meno di tre miglia dai centri abitali… e le fiam­me azzurrognole sprigionavano gas fin dentro i paesi, accan­to alle vigne e ai mandorleti, avvelenavano uomini, animali e piante. È vero, le zolfare limitrofe ai centri abitati disponeva­no di forni che, se usati correttamente, consentivano di fon­dere il minerale senza inquinare troppo l’ambiente. Forni che però presentavano «un doppio carattere, ossia quello di fusio­ne e quello di puro bruciamento». Ma la fusione comportava una spesa enorme. Gli industriali di conseguenza la scartavano e continuavano a bruciare i calcaroni. Poco importava insomma a quei signori se l’anidride solforica si faceva sen­tire «nelle strade della Comune, nelle case e nelle campagne dei benfatti a seconda del soffio dei venti».
Naturalmente i soggetti più a rischio erano gli zolfatari. Essi si dividevano in due categorie: interni ed esterni. Questi ultimi erano i carcarunara i quali, aiutati da fanciulli di 8-10 anni (carusi), si occupavano del riempimento e dello svuota­mento delle fornaci (carcaruna) e gli orditura, addetti alla fusione del minerale e alla raccolta dello zolfo fuso. Tipiche figure di zolfatari interni erano: i picconieri (pirriatura) che estraevano il materiale; gli spisalora, addetti alla ricerca di nuovi filoni e alla manutenzione della zolfara; gli acqualora. il cui lavoro consisteva nell’eliminare le acque d’infiltrazio­ne: i carrittera, i quali trasportavano lo zolfo su vagoncini fino ai piedi della discenderia: i carusi che, caricati come somari, portavano lo zolfo fuori dalla miniera.
Sulla penosità del lavoro minorile nelle zolfare si è scrit­to a profusione. «Ore nove e tre quarti – così annotava nel 1893 Adolfo Rossi, reduce dalla visita alla miniera Cinnirella – dopo un po’ di riposo torniamo indietro e cominciamo la salita. È durissima per noi che non portiamo nulla sulle spal­le, che siamo robusti e ben nutriti. Come dev’esser più dura, malgrado l’abitudine, per gli infelici carusi! Ne incontriamo a ogni minuto. Si sente ora la loro respirazione affannosa, e ora quel lamento che fa tanta pena. Qualcheduno urta di tanto in tanto col suo carico contro la volta bassa. Qualche altro sdrucciola e cade come Cristo sotto la sua croce, senza trova­re un pietoso cireneo! Altri, non potendone più, gettano per un momento il pesante fardello e siedono ansanti per ripren­dere un po’ di fiato. Alla svoltata di una galleria un caruso è lungo disteso sui pezzi aguzzi del materiale che a lui, sfinito dalla fatica, devono sembrare un soffice materasso. Passa in quella un sorvegliante e toccandolo con l’aguzza asta di ferro che gli serve da bastone gli domanda: “dormi”. Man mano che saliamo una corrente d’aria, che a noi pare gelata, scende dall’altissima imboccatura del pozzo. Anche coperti di lana, c’è da prendere una polmonite. E i carusi, grondanti di sudo­re, sono nudi».
I carusi venivano assunti con il sistema del «soccorso morto», ossia tramite un cospicuo anticipo in denaro che il picconiere, lavoratore a cottimo, versava ai genitori di fan­ciulli di 8-10 anni costretti a restare alle sue dipendenze fino all’estinzione del debito: cosa che a volte si verificava dopo un paio di lustri, se non di più. Passavano, insomma, gli anni migliori della loro vita in condizione servile, i carusi. E si dava anche il caso che fossero oggetto ludico delle insane voglie sessuali dei loro padroni che li chiamavano «culari». Subivano violenze d’ogni sorta e dovevano pure stare zitti, quando gliele faceva il loro picconiere, cui dovevano peraltro baciare le mani all’inizio e alla fine di ogni giornata di lavo­ro. Il loro companatico era spesso cipolla cruda e persino olio bruciato della lucerna.
Ma la vita non era gioco per nessuno, in quelle bolge infernali. Se gli acqualora dovevano farsi in quattro per evita­re che allagassero le gallerie, i picconieri scavavano monta­gne di zolfo e sparavano mine con noncuranza della propria e altrui incolumità. Potevano essere «rozzi, incolti, avidi, sudi­ci, violenti, ubriaconi, irruenti, istintivi ed altro ancora», ma lavoravano come muli di masseria, erano «l’anima pulsante della miniera». Mangiavano le stesse cose degli altri addetti alla zolfara, nei giorni lavorativi. E la domenica non lascia­vano soli i compagni intenti a celebrare i riti di Bacco nella taverna, putia o ‘ncantina che dir si voglia, con l’illusoria speranza di annegare, tra bestemmie e tocchi di vinu, le ama­rezze e gli incubi del quotidiano.
Frane, incendi, allagamenti, crolli di ponti e gallerie… erano però eventi che non si potevano scongiurare con le sbornie. E gli zolfatari morivano a quattro a quattro, a dozzi­ne, a centinaia. Morivano e si parlava di disgrazia, di destino infame, di maledizione divina caduta tra capo e collo su que­gli ubriaconi dalla bestemmia facile. Nessuno denunciava la violazione delle norme di sicurezza del lavoro nelle zolfare, non uno solo puntava il dito contro l’avidità e la mancanza di scrupoli dei gabelloti (affittuari delle estrazioni e dei partitanti (cottimisti). Gli stessi sopravvissuti ai disastri non sapevano fare altro che maledire le persone più care, i preti, la loro stessa natura umana: Maliditta me mairi che mi figlià, Porcu lu parrinu chi mi vattià, Cristu era megliu che mi facia porcu, alumenu all’annu mi scannavanu e la pigliava ‘nculu e muria (Maledetta mia madre che mi figliò! Porco il prete che mi battezzò! Era meglio che Cristo mi avesse fatto porco, almeno dopo un anno mi scannavano, e la pigliavo nel culo e morivo).
Imprecavano contro la mala sorte, attaccavano il Signore, la Madonna e i Santi, avevano un linguaggio sboccato… ma non potevano nemmeno mugugnare quando una «disgrazia» in miniera provocava una decurtazione salariale come quella denunciata da Carlo Levi una cinquantina d’anni fa: «Alla busta-paga del morto venne tolta una parte del salario, per­ché, per morire, non aveva finito la sua giornata; e ai cinque­cento minatori venne tolta un’ora di paga, quella in cui ave­vano sospeso il lavoro per liberarlo dal masso e portarlo, dal fondo della zolfara, alla luce».
Non bastassero le ingiustizie subite in vita, ancora duran­te l’ultimo conflitto mondiale gli zolfatari morti per infortu­nio sul lavoro non avevano diritto né al viatico come Dio comanda né alle funzioni religiose in chiesa. Era già tanto se il corteo funebre sostava davanti a un’edicola votiva sormon­tata da una croce dove un compagno dello scomparso improvvisava un breve elogio funebre per ricordarne la vita. A Ragalmuto si conserva ancora la memoria di uno di questi discorsi: «Travagliasti a lu Dammusu, travagliasti a Gihillni, travagliasti a la Tri e sei, onuratu di mia e di tutti li cumpagni. Futtitinni si muristi». (Hai lavorato alla miniera Dammuso, hai lavorato alla Gibillini, hai lavorato alla Tre e sei, onorato da me e da tutti i compagni. Fottetene se sei morto).
Le miniere cominciarono a chiudere una dopo l’altra verso la metà del Novecento, a causa dell’agguerrita con­correnza dello zolfo statunitense, prodotto a basso costo. Erano state motivo di grandi disastri, di arricchimenti, di tra­colli finanziari e persino centri di potere mafioso, a conside­rare il fatto che tra gli ultimi gabelloti di zolfare spicca il nome di don Calò Vizzini, capo dei capi della vecchia mafia rurale. Sarebbe tuttavia sbagliato dimenticare l’eredità positi­va dell’esperienza mineraria.
Negli anni in cui si aprirono le prime zolfare l’entroterra siciliano era chiuso in sé stesso, privo di strade. Per attraver­sare i fiumi i viaggiatori erano costretti a ricorrere all’aiuto di «robusti marangoni», ossia di uomini forzuti che sbarcavano il lunario facendo il mestiere di san Cristoforo, aiutando cioè i passeggeri a guadare i corsi d’acqua. Ma già nel 1840, quando ì Francesi e gli Inglesi si contendevano lo zolfo sici­liano la Sicilia centrale era discretamente dotata di strade a ruota. Lercara Friddi ebbe in anticipo rispetto ad altri comu­ni il servizio telegrafico. La miniera Trabia fu servita di una delle prime centrali elettriche d’Italia. In tutti i comuni mine­rari fiorirono il commercio, l’artigianato e l’industria delle costruzioni. Vi arrivarono prima che altrove le ferrovie. La cultura popolare si arricchì di canti delle zolfare. poesie in vernacolo, tradizioni, feste religiose. E si aprì pure un capito­lo nuovo per la letteratura e le belle arti. «Per esempio – ricor­dava Leonardo Sciascia -, senza la zolfara, senza la presenza e il peso delle miniere di zolfo, credo che la Sicilia occiden­tale alla quale appartengono Pirandello, Rosso di San Secon­do, Nino Savarese, Francesco Lanza, e io stesso, non avreb­be prodotto scrittori. La zolfara ha rappresentato una grande apertura al mondo, una grande occasione di presa di coscien­za per l’uomo siciliano».
Onore, dunque, agli zolfatari e a quanti si adoperano per non disperderne la memoria. La speranza è che le popolazioni interessate, con gli amministratori in testa, si decidano una buona volta a valorizzare le aree minerarie dismesse e sap­piano cogliere le opportunità offerte dall’Unione Europea e dalla stessa legge regionale istitutiva dei musei delle miniere.

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