lunedì, maggio 15, 2017

Sciara, il Comune, la scuola e la Cgil ricordano Salvatore Carnevale

TURIDDU CARNEVALE, DELITTO ANNUNCIATO
DINO PATERNOSTRO
A Sciara, quel lunedì 16 maggio 1955, Salvatore Carnevale si era alzato molto presto. Non avendo né una bicicletta né un mulo, la strada per recarsi alla cava era costretto a farla a piedi. E, se voleva arrivare in orario, doveva partire ancora col buio. Subito dopo di lui, si era alzata la madre, Francesca Serio. Si avvicinò al figlio e, col volto spaventato, gli disse: «Turiddu, stanotte ho fatto un brutto sogno. Stai attento alla cava, tieni gli occhi aperti!». «Vossia perché pensa a ’ste cose? Non ci deve credere ai sogni, sono superstizioni queste», le rispose Salvatore, rassicurandola. Poi la salutò, si rinchiuse la porta di casa alle spalle e s’avviò con passo spedito al lavoro. Erano le 5,30. Superata la cappella di San Giuseppe, imboccò la trazzera che portava alla cava, in contrada «Cozze Secche», quando qualcuno lo chiamò per nome. Fece appena in tempo a voltarsi, che dalle spighe ormai alte, dove si erano nascosti, uscirono degli uomini armati di fucili.
I primi due colpi ferirono Carnevale al fianco destro. Poi gli furono sparati altri quattro colpi, di cui uno alla testa e l’altro alla bocca: i colpi di grazia. «Cadde riverso, torcendosi col viso insanguinato», avrebbe scritto il giorno dopo Giovanni Cesario su «L’Unità della Sicilia». La notizia che sul ciglio della trazzera che portava alla cava Lambertini era stato assassinato Turiddu Carnevale, arrivò in paese intorno alle 8,00. A mamma Francesca dissero solamente che era stato ucciso un uomo, ma lei capì subito. Di corsa e col cuore in gola, si recò sul luogo del delitto, ma vi trovò già i carabinieri, che volevano impedirle di passare. «Signora, non è suo figlio», le disse il brigadiere. Ma Francesca non si fermò: «Vigliacco, non è mio figlio, questi non sono i piedi di mio figlio? E quelle non sono le calzette che ci lavai ieri a mio figlio, che ha messo nei piedi?», urlava, facendosi strada a forza, fino ad abbracciare il cadavere del suo Turiddu. Piangeva, disperata, mamma Carnevale. Se l’aspettava che, un giorno o l’altro, questo figlio glielo dovevano ammazzare. Con la voce rotta dal pianto, guardò in faccia il brigadiere e urlò: «Me l’hanno ammazzato perché difendeva tutti, il figlio mio, il sangue mio! Gli assassini vada a cercarli tra i suoi amici dipendenti della principessa Notarbartolo!». Un chiaro e coraggioso atto d’accusa contro la mafia di Sciara, capeggiata dall’amministratore del feudo Giorgio Panzeca, dal soprastante Luigi Tardibuono, dal magazziniere Antonino Mangiafridda e dal campiere Giovanni Di Bella, che Francesca Serio avrebbe formalizzato in un esposto alle autorità inquirenti. I quattro furono fermati e tradotti in carcere perché gli alibi di Panzeca, Mangiafridda e Di Bella non ressero alle verifiche, mentre un primo testimone - Filippo Rizzo - si lasciò scappare, pur tra contraddizioni, di aver visto Tardibuono sul luogo del delitto; e un secondo testimone - Salvatore Esposito - riferì di aver visto vicino alla trazzera sia il Tardibuono che il Panzeca. Per legittima suspicione, il processo di primo grado si svolse a S. Maria Capua Vetere. Iniziò il 18 marzo 1960 e si concluse il 21 dicembre 1961, con la condanna all’ergastolo di tutti e quattro gli imputati. «Ora posso morire tranquilla, perché giustizia è stata fatta, non solo per il mio Turiddu, ma per tutti i caduti sotto i colpi della Mafia», dichiarò al giornale «L’Ora» del 23-24 dicembre 1961 Francesca Serio, che non aveva presenziato a tutte le udienze del processo. Ma il processo d’Appello, svoltosi a Napoli dal 21 febbraio al 14 marzo 1963, e quello in Cassazione avrebbe ribaltato la sentenza di primo grado, assolvendo tutti gli imputati per insufficienza di prove. E mamma Carnevale dichiarò: «Me l’hanno ammazzato una seconda volta!». A Napoli, in sostanza, prevalse il formalismo giuridico. Dai giudici «nessuno sforzo venne fatto per tenere conto della specificità di un processo radicato in una realtà dove domina la mafia e dove le regole comportamentali non sono quelle che vengono osservate nel resto del Paese», commenta Umberto Ursetta, nel suo recente libro «Salvatore Carnevale, la mafia uccise un angelo senza ali», distribuito da «L’Unità».
«SE AMMAZZANO ME, AMMAZZANO CRISTO!»
LA STORIA.  Così il sindacalista rispondeva a chi lo minacciava e lo invitava a lasciar perdere la lotta
Quando morì Salvatore Carnevale aveva appena 30 anni. Era nato a Galati Mamertino, in provincia di Messina, il 25 settembre 1925, da Giacomo Carnevale e Francesca Serio. A Sciara si trasferì ancora piccolissimo con la madre, che si era separata dal marito. Nel 1951, insieme ad un gruppo di contadini, aveva fondato la sezione socialista e la Camera del lavoro di Sciara. E subito cominciò a battersi per l’applicazione della riforma agraria e la divisione dei prodotti della terra a 60 e 40 (60% al contadino e 40% al padrone). Una cosa inaudita per i gabelloti e i campieri della principessa Notarbartolo, che fino ad allora erano riusciti a tenere fuori Sciara dalle ondate di lotte contadine della Sicilia centro-occidentale. «A Carnevale fu subito offerto da un amministratore del feudo, se avesse abbandonato la lotta, tutte le olive che egli avrebbe voluto», raccontò Carlo Levi nel libro «Le parole sono pietre». Ma il giovane rifiutò sdegnosamente e costrinse la controparte a firmare un primo accordo favorevole ai contadini. Sull’onda del successo, ad ottobre organizzò l’occupazione simbolica del feudo della principessa, ma fu arrestato insieme a tre suoi compagni. Scarcerato dopo 10 giorni, ma rinviato a giudizio, dovette aspettare l’estate del 1954 per essere assolto. Nel frattempo il movimento contadino era cresciuto, fino ad ottenere «due decreti di scorporo delle terre del feudo eccedenti i 200 ettari: il primo del 21 luglio 1952, l’altro il 16 marzo 1954», scrive Pippo Oddo nel libro pubblicato in questi giorni «Tra il feudo e la cava. Salvatore Carnevale e la barbarie mafiosa». Ma, ai primi di agosto del 1952, in fretta e furia, il sindacalista fu costretto ad andar via da Sciara, senza dare spiegazioni, per "rifugiarsi" a Montevarchi, in provincia di Arezzo. Perché questa "fuga" improvvisa? «Per andare a lavorare», sostenne l’avvocato Francesco Taormina al processo. Ma Pippo Oddo non crede a questa tesi. Sostiene, invece, che Carnevale fu costretto a lasciare il suo paese per sfuggire alla mafia di Caccamo, che il 7 agosto 1952, aveva ucciso a colpi d’accetta un suo amico, il militante comunista Filippo Intile. Turiddu, però, tornò a Sciara il 14 agosto 1954, appena gli arrivò la notizia che il processo a suo carico si era concluso con l’assoluzione, facendo pensare che se n’era allontanato perché temeva una dura condanna. Una volta in paese, diede impulso a nuove lotte per chiedere l’accelerazione delle procedure di assegnazione della terra ai contadini (dei 704 ettari scorporati, infatti, ne erano stati assegnati appena 202), occupando nuovamente il feudo Notarbartolo. Ancora una volta fu minacciato dai mafiosi, denunciato dalle autorità e condannato a due mesi di carcere con la sospensione condizionale della pena. Rimasto disoccupato, nel febbraio 1955 cominciò a lavorare nel cantiere edile della ditta Di Blasi. Dopo due mesi, però, rimase nuovamente senza lavoro. Ma, inaspettatamente, gli fu offerto un posto nella cava Lambertini. Carnevale accettò e il 29 aprile 1955 cominciò a lavorare. Ma anche qui continuò la sua attività sindacale, organizzando gli operai per rivendicare il diritto alle otto ore lavorative. La sera del 10 o dell’11 maggio, un emissario della mafia gli disse: «Lascia stare tutto e avrai di che vivere senza lavorare. Non ti illudere, perché se insisti, finisci per riempire una fossa». «Se ammazzano me, ammazzano Cristo!», rispose Carnevale, che, a scanso d’equivoci, il 12 maggio proclamò lo sciopero dei cavatori per il rispetto dell’orario di lavoro e il pagamento del salario di aprile. All’iniziativa aderirono 30 dei 62 operai: un successo. Allora piombarono alla cava il maresciallo dei carabinieri Dante Pierangeli e il mafioso Nino Mangiafridda. «Tu sei il veleno dei lavoratori!», gli disse il maresciallo. E il mafioso: «Picca nn’hai di sta malantrinaria!». Quattro giorni dopo Turiddu sarebbe stato assassinato.
L’assassinio di Carnevale ebbe una vastissima eco in tutta Italia. Il primo dirigente politico a correre a Sciara fu il senatore Sandro Pertini, futuro Presidente della Repubblica. Da allora Pertini sarebbe sempre rimasto a fianco di mamma Francesca, tanto che si è detto (anche se non è vero) che fu uno dei legali di parte civile, in contrapposizione a Giovanni Leone, anch’egli futuro Presidente della Repubblica, che assunse la difesa (ma solo in cassazione) degli assassini. A Sciara arrivarono anche giornalisti di tutte le testate regionali e nazionali, Emanuele Macaluso ed altri dirigenti della Cgil, del Psi e del Pci. I funerali, anche se il prete si rifiutò di benedirne la salma, furono imponenti e solenni. «Per questa bandiera mio figlio è morto, con questa bandiera deve andarsene via», disse mamma Carnevale, avvolgendo con la bandiera rossa socialista la bara di Turiddu.  Otto giorni dopo l’assassinio, a Sciara si svolse un’altra grande manifestazione, conclusa da Sandro Pertini. Nell’occasione, fu inaugurata una lapide sul luogo del delitto, con questa scritta: «Qui nel luogo del lavoro e della lotta tra il feudo e la cava, all’alba del 16 maggio 1955, Salvatore Carnevale fu barbaramente assassinato. I compagni e il popolo posero nell’ottavo giorno del suo sacrificio come impegno di più fiera battaglia per la giustizia, per la liberazione della Sicilia». Ma il prefetto Sante Jannone fece cancellare la parola "popolo", che ancora oggi resta coperta da una pennellata di calce bianca (costerebbe poi tanto farla cancellare?). Per Carnevale vi fu anche una straordinaria mobilitazione della cultura. A lui dedicarono articoli e commenti Mario Farinella, Marcello Cimino, Emanuele Macaluso e Leonardo Sciascia. Ma a rendere eterne le figure di Turiddu e mamma Francesca contribuirono lo scrittore Carlo Levi, con il libro «Le parole sono pietre», e il poeta Ignazio Buttitta, con «Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali».

La Sicilia, 15 maggio 2005

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