domenica, maggio 14, 2017

Giuseppe Governali: "Non sono un nostalgico cantore del buon tempo antico..."

Il prof. Giuseppe Governali
Sabato 13 maggio 2017, nell'Auditorium del liceo delle scienze umane "Don G. Colletto" è stato presentato il libro del prof. Giuseppe Governali, scomparso prematuramente l'anno scorso. Ha coordinato i lavori Dino Paternostro, direttore di Città Nuove. Ha portato il saluto della scuola la preside prof.ssa Natalia Scalisi. Hanno svolto relazioni: Giovanni Perrino, poeta e dirigente scolastico; Ignazio E. Buttitta, docente dell'Univesità di Palermo; Giovanni Ruffino, presidente del Centro di studi filologici e linguistici siciliani. Fuori programma l'intervento di fra' Paolo, dei frati minori rinnovati. Pubblichiamo la premessa al libro scritta dallo stesso autore. GUARDA L'ALBUM FOTOGRAFICO
GIUSEPPE GOVERNALI
Non sono un nostalgico cantore del “buon tempo antico”, né ho mai rivestito d’idillio la fatica del contadino che, in piedi già prima dell’alba per la pulitura della stalla, s’avviava ai campi sul mulo col carico di concime. Eppure custodisco in me, religiosamente, quasi testamento d’una civiltà già morta o morente, il ricordo dell’aia e della battitura del grano, del pane fatto in casa e delle magre cene di fredde sere invernali. E con l’odore buono del pane, la miseria, gli stenti, le paure, l’ignoranza…

Negli anni del dopoguerra, anni ai quali risalgono i miei primi ricordi, era considerato, dalle mie parti, già benestante il piccolo possidente, “u buggisi”, che, per sopravvivere e aggiungere altra terra alla terra sopportava fatiche e privazioni sovrumane.
La famiglia aveva una struttura patriarcale, con la moglie sottomessa al marito e l’uomo che, almeno nelle occasioni di più impegnativa ufficialità, recitava la parte del capo; i matrimoni, alcuni dei quali riparatori, erano spesso combinati ed erano talora ripudiati e diseredati i figli e le figlie che, non curanti del “rango”, andavano a nozze con giovani di estrazione sociale inferiore alla loro: “Mettiti cu i miegghiu ri tia e appizzacci i spisi” (fai lega con gente migliore di te e non badare a spese).
Numerosa ancora la figliolanza: i figli, soprattutto i maschi, erano ritenuti una benedizione di Dio; un po’ meno le femmine considerate scherzosamente, ma non troppo, cambiali da pagare. Certo non usava più la “minuta”, come i vecchi chiamavano l’elenco della biancheria e delle masserizie passate in dote alla figlia, ma alla dote la buona massaia pensava già fin dalla nascita della figlia:
“A figghia nn’a fascia, a doti nn’a cascia” (la figlia ancora in fasce e la dote nella cassa).
Risparmio e privazioni erano quindi inevitabili; più che virtù necessità; si risparmiava su tutto, anche sul cibo: pane e pasta tutti i giorni erano già un lusso; la carne la domenica, ma solo per i benestanti, e il pranzo completo nelle feste grandi.
C’era ancora tanta fame e gli accattoni d’allora ringraziavano e benedicevano per un pezzo di pane ricevuto in elemosina. E con la fame, le carenze igieniche e le malattie: l’acqua si attingeva alle pubbliche fontanelle, epidemie di tifo si trasformavano in vere e proprie pestilenze, il medico e le medicine erano dei lussi ai quali spesso si preferivano la “magara” e le sue arti: s’individuava l’oggetto del maleficio, si bruciava alla mezzanotte in punto, le sue ceneri si deponevano al più vicino quadrivio; poi si purificava la casa con fumo d’incenso, fatto ardere secondo rigorosi rituali. Non c’era, si può dire, malattia, che no fosse considerata l’effetto d’un maleficio (magaria) operato da un vicino invidioso o da un parente. E da qui le liti feroci (sciarre) tra famiglie di uno stesso quartiere o di una stessa strada, pittoresche e colorite nella loro pur seria drammaticità. Misere guerre tra poveri: bastava un nonnulla per suscitare un vespaio: l’immondizia lasciata fuoriposto, una porta sbattuta in faccia, una canzone allusiva. E anche l’analfabetismo imperversava: che spettacolo triste vedere all’ufficio postale anche giovani segnare una croce su ricevute o mandati e andare in cerca di due testimoni a garanzia della loro identità. Poi il mercato del lavoro nella piazza del paese: masse di braccianti, in estate, invadevano il paese per la mietitura: la notte a dormire sulle pubbliche vie, all’alba la contrattazione e il noleggio. Il tutto controllato e guidato dalla mafia in uno Stato assente perché ancora tutto da inventare.
Espressione del mondo sommariamente rievocato, la cultura popolare, il dialetto e tutto quello che il dialetto rappresentava sono stati, anche dalle nostri dalle parti, rimossi in maniera forse un po’ troppo affrettata e inconsulta. A tale rimozione hanno insieme contribuito non tanto la scuola, che con la pretesa di promuovere una lingua (cultura) unitaria, ha di fatto soffocato intere etnie, quanto le grandi scelte politiche del dopoguerra che, legando allo sviluppo industriale il destino della nostra economia, hanno finito con l’attribuire all’agricoltura il ruolo di attività da terzo mondo. La televisione, la pubblicità, l’imporsi di nuovi modelli di comportamento, la fuga dalla campagna, l’immigrazione hanno poi fatto tutto il resto. Risultato: da un lato la perdita di ogni identità culturale per quella massa di gente che, fuggendo dalla campagna, ha tentato di trapiantarsi in città indossando, talora goffamente, una cultura piccolo-borghese; dall’altro la motivata paura, per chi è rimasto in campagna, dell’antica “sub-cultura” d’origine che, o sopravvive come relitto non più in grado di evolversi e riprodursi o, peggio, è tenuta artificialmente in vita per soddisfare i bisogni di evasione nostalgica della gente comune e gli interessi ben più concreti dei vari enti o associazioni per il turismo.
E allora che senso ha “riciclare”, come tento di fare con la presente raccolta, modi di dire e proverbi caduti in disuso o destinati a morire? E che significato può avere una presa di coscienza postuma del valore della cultura dialettale? Forse, come negli ultimi anni di vita andava ripetendo Pasolini, nessun altro significato all’infuori di quello di custodire, cosa in sé meritoria, la memoria di caro estinto. O forse può ancora, se non altro, servire ad alimentare la risentita “amarezza perché invece di una possibile trasformazione in una civiltà agricola, degna di questo nome, assistiamo ad una pura e semplice dissoluzione nel nulla!” [1]
Non si tratta quindi di conoscere solo il passato, ma di realizzare le sue speranze, per evitare che “il passato continui come distruzione del passato”.
Raccogliere e custodire infatti quanto del passato rimane e lambisce ancora con qualche segno il presente, può voler significare riprendere un colloquio bruscamente interrotto, ascoltare, vedere, riappropriarsi di antiche, sopite speranze.
La speranza di finalizzare all’uomo la nuova tecnologia dell’era post-industriale e il bisogno di ristabilire un nuovo vitale equilibrio tra uomo e ambiente. Solo a questo patto si eviterà , per l’avvenire, la disperata bestemmia: “la fame d’una volta era meno penosa dell’isolamento di oggi”.
I modi di dire e i proverbi, passati in rassegna nella presente raccolta, sono le “frasi fatte” dell’antico parlar popolare, ripescate nella memoria, o casualmente colte nei discorsi di anziani contadini del corleonese; alcune fanno riferimento ad aneddoti legati a figure e personaggi realmente esistiti di cui si è cercato di recuperare la storia; altre sono motti e “detti memorabili” che servivano a dare vigore colore ai discorsi della gente comune, espressi con un linguaggio talora iperbolico (l’iperbole, a giudizio di G.Bufalino, è nella natura di ogni forma di sicilianità), ma sempre fatto di cose, ove, se metafora c’è, ne è così immediato il riscontro da non richiedere un eccessivo sforzo di immaginazione. Si tratta in ogni caso di REPERTI d’una letteratura “tagliata” in nome e a vantaggio di una unità culturale grigia, idiota, rozza, tutt’altro che nazional-popolare.
Il volume è la seconda edizione aggiornata della raccolta “Giudizi-pregiudizi-ricordi-fantasie” pubblicata nel 1990.
In appendice un elenco di proverbi suddivisi per argomento ed interpretati secondo l’accezione che essi hanno acquisito nella zona.
                                                                                                Giuseppe Governali





[1] I.Calvino, Corriere della sera, 24 set 1977.

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