venerdì, gennaio 06, 2017

La storia semplice e speciale di un sindaco barbiere nella San Giuseppe Jato degli anni '40

Da sinistra: l'attuale sindaco di San Giuseppe
Jato Davide Licari, Andrea Palmeri
Martedì 3 gennaio il comune di San Giuseppe Jato ha festeggiato i 100 anni di Andrea Palmeri, che fu sindaco del paese jatino dall’agosto del ’48 all’agosto del ’50. Sulla figura di Palmeri, sulla “storia semplice e speciale” di questo sindaco-barbiere, pubblichiamo un piccolo saggio storico significativo e profondo del prof. Pierluigi Basile, che ringraziamo per questo contributo al nostro giornale. (dp)                                       di PIERLUIGI BASILE 
Cento anni fa, nei giorni a cavallo tra il 1916 e il 1917, nasceva uno dei migliori protagonisti della politica nella valle Jato. Si chiama Andrea Palmeri ed è stato celebrato dall’amministrazione comunale di San Giuseppe per il suo illustre passato. Un’esperienza di militanza e impegno civile culminata negli anni 1948-50 con la carica di primo cittadino. Un illustre passato che solo all’apparenza stride con la sua umiltà: perché Palmeri è stato per molti anni un barbiere ed ha sempre assunto un atteggiamento pacato, disteso e dubbioso. Tutte virtù lontane anni luce dall’arroganza e dalla supponenza dei giorni nostri. D’altra parte la storia della rinascita democratica nella nostra valle, come in ogni altra parte d’Italia nel periodo del secondo dopoguerra, si intreccia e si alimenta delle vicende personali e delle azioni collettive di persone semplici, espressione del “popolo” sempre sottomesso e subalterno ed invece chiamato in questo frangente, prima con la guerra partigiana e poi nella lotta contadina, a recitare nel ruolo di protagonista.

Un'altra immagine della cerimonia
A spezzare le catene sociali della “gerarchia” – parola chiave del regime fascista – furono tanti migliaia di anonimi Andrea come lui. Chiamati più spesso a scrivere pagine di silenziosa resistenza o coraggiosa battaglia ma senza aspettarsi di riuscire ad iscrivere il proprio nome nel “libro d’oro” della storia, raggiungendo gli scranni del potere locale da sempre appannaggio delle famiglie agiate del paese. La Storia nasce spesso nei sontuosi palazzi aristocratici, simbolo concreto di soprusi e spoliazioni secolari a danno di una massa informe di senza nome e senza dignità. Però talvolta il destino si prende la rivincita. Ed è quello che è successo nei primi anni Quaranta a San Giuseppe Jato. Ebbene sì, perché, parafrasando il celebre discorso di Calamandrei sulla Costituzione, se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la democrazia e la Repubblica bisogna andare nel suo salone da barbiere.
Qui in clandestinità, con la guerra in atto e gli eserciti alle porte nasceva il primo nucleo del Partito comunista. A notte fonda infatti, spente le luci e abbassata la saracinesca, Andrea e i suoi compagni ascoltavano Radio Londra, voce delle forze alleate che stavano combattendo contro l’asse di Mussolini-Hitler. Le trasmissioni erano espressamente vietate e tutti sapevano di rischiare la detenzione e il confino. Ma, attraverso le notizie dai fronti di guerra e i commenti che ne seguivano, si prefigurava già una nuova stagione per l’Italia.
Quando la riconquistata libertà consentì nuovamente di organizzarsi e far politica alla luce del sole, quel piccolo salone restò comunque una sorta di seconda sezione, o meglio una succursale della Camera del Lavoro e della sede del partito. Lì si discuteva animatamente, si leggevano i quotidiani più diffusi (il Giornale di Sicilia, La voce della Sicilia, L’Unità) e si organizzavano le attività di propaganda, gli incontri sindacali e le iniziative del partito. 
Il Blocco del Popolo, formato da socialisti e comunisti, si pose da allora alla guida delle rivendicazioni dei ceti più poveri – per lo più contadini e piccoli artigiani – e nel 1946 condusse vittoriosamente la battaglia referendaria a favore della Repubblica e le prime elezioni amministrative. La rivoluzione della “Valanca” si era realizzata, un antico sogno di liberazione si era d’un colpo avverato: gli “animali parlanti”, i miseri e gli oppressi che vivevano nella zona bassa e più povera del paese – la cosiddetta “Valanca”, oggi corrispondente al quartiere circostante la via dello Stadio - avevano alzato la testa, i “rossi” avevano avuto la meglio su cattolici, liberali e separatisti.  
I consiglieri appena eletti designavano come Sindaco un giovane studente di medicina, Biagio Ferrara. Per partiti costituiti per la stragrande maggioranza da gente incolta ed analfabeta si trattava degli “intellettuali” (bastava la semplice maturità liceale per esserlo), un vero fiore all’occhiello da esibire e sfruttare all’occorrenza per scompaginare gli schemi dello scontro di classe. A cavalcare in testa all’esercito di straccioni che occupava le terre dei latifondisti in quei tempi non era infrequente incontrare tali personaggi.        

Il sign. Ferrara Biagio, sindaco di S. Giuseppe Jato, è uno studente universitario, di carattere assai impulsivo e fanatico (almeno apparentemente) cultore delle teorie comuniste che cerca di inculcare o rafforzare nell’animo degli iscritti al P.C. di S. Giuseppe, con frequenti discorsi (in occasioni di riunioni o cerimonie) durante i quali si compiace di assumere atteggiamenti da tribuno ed, occorrendo, dar segni di interiore commozione.
Allievo personale dell’onorevole Li Causi (del quale si vuole prenda direttamente istruzioni) non difetta di ambizione e non disdegna sovente di diventare fazioso, ricorrendo a qualsiasi arma morale per colpire gli avversari politici, ovvero a qualunque espediente per fomentare e alimentare nell’animo dei suoi compagni di fede – generalmente poveri analfabeti – l’odio di classe.

Così il giovane sindaco veniva descritto da un funzionario di Polizia nel 1947, all’indomani della strage di Portella delle Ginestre, che aveva insanguinato la sua comunità. In quel frangente – come pure sottolineava il rapporto – mostrando grande coraggio, si contraddistinse come «pubblico accusatore», segnalando alle autorità senza riserve i nomi di avversari politici «generalmente affiliati alla maffia», i quali rappresentano una costante minaccia per lui. Tanto che veniva giorno e notte accompagnato da alcuni compagni armati nei suoi spostamenti, specialmente dopo che il venerdì Santo di quello stesso anno una bomba era stata lanciata contro la sua abitazione.
Il cerchio delle minacce d’altra parte si faceva sempre più stretto attorno a lui, così il partito decise – come avrebbe fatto con alcuni testimoni del I maggio (la famiglia Borruso tra queste) – di allontanarlo dal pericolo: a Ferrara fu pertanto “consigliato” di completare gli studi a Padova e lasciare l’incarico.    
Giungeva così inattesa nell’agosto 1948 la svolta che avrebbe cambiato la vita di Palmeri: a lui, che sino ad allora aveva ricoperto la carica di assessore, venne affidata la guida del comune. Erano anni terribili segnati come detto dallo scontro aperto tra movimento contadino e il blocco sociale e criminale costituito da mafia/bandistismo/agrari; ma anche dal cammino lungo e faticoso della ricostruzione post-bellica, che doveva rimettere in piedi comunità piegate dalla fame, dalla distruzione e dalla miseria.
Da uomo mite, ma tenace, seguì subito l’orientamento della sua “ideologia” e difese gli interessi degli strati popolari, affrontando il problema del risanamento della zona bassa, quello dell’acquedotto e delle strade comunali. Ma il suo grimaldello rimase la vicenda legata alla riscossione della “imposta di famiglia”, corrispondente all’antico focatico. Perché in quel caso opponendosi all’ingiusto principio di distribuire tra tutta la popolazione tale tassa – considerata l’estrema indigenza di un gran numero di concittadini – riuscì con moderazione e buonsenso a convincere le famiglie più agiate a sostenere per intero il suo carico.
Non fu un passaggio facile e per questo dai democristiani e dalle destre fu accusato e costretto a difendersi di fronte ad una commissione prefettizia. Secondo loro stava difendendo interessi “di parte”, quelli dei suoi elettori. Avevano colpito nel segno: faceva proprio quello che ogni politico dovrebbe, applicando i principi della neonata Costituzione, che impone di tutelare i più deboli e seguire la logica della contribuzione progressiva (ognuno contribuisce in ragione e rapporto a quel che ha). Dopo aver incassato i complimenti dell’ispettore inviato da Palermo – fazioso ma non stupido evidentemente – Palmeri continuò ad essere il rappresentante dei “poveri cristi” jatini finché gli fu chiesto, ovvero fino all’agosto del 1950. Fece appena in tempo per proporre un atto formale contro la guerra in Corea – condiviso e votato poi da maggioranza e opposizioni – e ricordare il profondo valore della pace. 

Poi si ritirò in buon ordine, ritornando al suo lavoro di barbiere e alla sua vita di ogni giorno, senza rimorsi né ambizioni, continuando a credere negli ideali che lo avevano sempre animato. E oggi rappresenta per tutti noi una rara testimonianza e una lezione vivente di come la politica possa essere una cosa straordinaria se fatta con passione e umiltà, libertà e schiena dritta. Anche se a farla sono gente semplice come Andrea, speciali eroi della quotidianità.              
Pierluigi Basile

2 commenti:

Toti Costanzo ha detto...

Capite perché tanti di noi negli anni '70 divennero e ancora rimangono comunisti ? Per Palmeri di S. Giuseppe Jato,Pinuzzu Italiano di S. Cipirello,Turiddu Termine e Cola Geraci di Partinico,Andrea Tranchina di Balestrate,Pino Di Stefano di Terrasini .Tanto per citare i Comunisti del nostro piu' vicino territorio che costruirono il PCI
Toti Costanzo

sala rossa ha detto...

Capite perché tanti di noi negli anni '70 divennero e ancora rimangono comunisti ? Per Palmeri di S. Giuseppe Jato,Pinuzzu Italiano di S. Cipirello,Turiddu Termine e Cola Geraci di Partinico,Andrea Tranchina di Balestrate,Pino Di Stefano di Terrasini .Tanto per citare i Comunisti del nostro piu' vicino territorio che costruirono il PCI
Toti Costanzo