mercoledì, novembre 02, 2016

Tina Anselmi, la prima donna ministro, sfidò i poteri oscuri della P2. Una vita per la bella politica

Tina Anselmi
SIMONETTA FIORI
L’addio a Tina Anselmi. Dalla Resistenza alla militanza nella Democrazia cristiana, nelle cui file fu deputata dal ‘68 al ‘92. Con l’ex presidente della commissione P2 scompare un simbolo della Repubblica, che respinse i tentativi di insabbiare la verità sui poteri deviati nello Stato. Mattarella: da lei limpido impegno per la legalitàLa chiamavano la Tina Vagante, alludendo alla sua integrità esplosiva rispetto al gioco del potere. Da anni era chiusa nel silenzio dei giusti, il Parkinson e poi un ictus ne avevano consumato le energie intellettive. Ma in fondo parla per lei la sua morte, capitata per curioso destino in un duplice anniversario che ne puntella la biografia politica: il settantesimo del voto femminile e il quarantesimo d’un ministero assegnato per la prima volta a una donna. Quella ministra era lei, Tina Anselmi, una vita da primato vissuta con l’umiltà dei semplici. A scorrere i quasi novant’anni di vita – era nata a Castelfranco Veneto il 25 marzo del 1927 – ci si imbatte solo in una sequenza di primati, come rileva anche il bel ritratto apparso in un volume del Mulino, Donne della Repubblica.

Tutte le cose migliori della storia repubblicana portano la firma dell’Anselmi. Ma la Tina, come la chiamano dalle sue parti, era antropologicamente immune da qualsiasi vanità. Sorridente, faccia larga, la femminilità trattenuta, concretezza contadina, il rigore morale di chi sceglie di stare dalla parte dei più deboli. Per istinto naturale prima ancora che per coscienza politica. Divenne staffetta partigiana a 16 anni dopo aver assistito all’impiccagione del fratello d’una sua amica ad opera dei nazifascisti. Dopo pochi giorni, con il nome in codice di Gabriella, si lancia in sella a una bicicletta per portare notizie ai resistenti. Ma il carattere della Tina si rivela il giorno della Liberazione, quando nel buio della piazza punta la pistola sulle spalle di un uomo scambiato per un repubblichino: era suo padre, uscito per cercarla nelle ore del coprifuoco. Ne avrebbero riso per il resto della vita.
Tina la tosta. Tina che non si spaventa davanti a niente, specie se si tratta di difendere le altre donne. È iscritta a Lettere – alla Cattolica di Milano – quando comincia la militanza sindacale al fianco delle filandiere e più tardi delle maestre elementari. Poca teoria e molta pratica: per cominciare le bastò guardare le dita lessate delle operaie. Agli amici socialisti del padre preferisce i suoi compagni partigiani cattolici, e le sue stelle polari se le andrà a cercare dentro la Democrazia Cristiana, tra De Gasperi e Dossetti, Moro e Zaccagnini. Agli anni della guerra risale anche il suo grande amore, l’unico, morto precocemente a causa di una malattia. Ma la Tina preferiva non parlarne, sempre riservata sulla sua solitudine sentimentale. «No, non ho scelto io, ma è la vita che ha scelto per me», rispondeva alla biografa Anna Vinci. «Ha scelto la politica». Nel 1946 non può ancora votare, ma si dà da fare tra le contadine venete perché capiscano l’importanza delle urne. Negli anni Cinquanta la ritroviamo accanto alla socialista Lina Merlin contro le case di tolleranza: la difesa delle prostitute le avrebbe attirato molte critiche. Ma è solo l’inizio, agli attacchi e anche alle bombe si dovrà abituare col tempo.
In fondo è il destino di chi cambia la storia, o di chi ci prova e in parte ci rie- sce. Da ministra del Lavoro vara la legge di “parità di trattamento tra uomini e donne”: una vera rivoluzione per quei tempi, anche se è rimasta incompiuta. Nel 1978, da titolare del dicastero della Sanità, partecipa all’istituzione del Servizio sanitario nazionale, una conquista che oggi viene studiata dagli storici per spiegare il primato italiano di longevità. Sempre in quell’anno dà prova del suo senso delle istituzioni al di là di qualsiasi fede religiosa: pur avendo votato in Parlamento contro l’interruzione di gravidanza, in veste di ministra firma la legge sull’aborto, resistendo alle fortissime pressioni vaticane.
Non può piacere a tutti, Tina Anselmi. Troppo integra, e anche troppo attiva. Nel 1980 sfugge a una bomba - forse di mano neofascista - che fortunatamente non esplode. Solo a una donna del suo temperamento può essere assegnata nel 1981 la guida della commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2. Prima di accettare, si consulta con il suo amico Leopoldo Elia. Un lavoro straordinario – 198 persone ascoltate, centinaia di migliaia di carte – per far luce sul sistema occulto che condiziona la vita nazionale. Il dossier conclusivo è una meticolosa controstoria d’Italia che denuncia gli intrecci fangosi tra politica, apparati militari, servizi segreti, finanza, perfino il Vaticano. «Non è che l’inizio», ammonisce l’Anselmi, che invita ad approfondire il marcio rivelato dalla loggia massonica. Esortazione lasciata clamorosamente cadere. Contro la Tina piovvero le accuse di ossessiva visionarietà, ma a farle più male furono quelle della sua stessa parte politica. «Io credo che sia ammalata dopo questa storia», confessa la sorella Maria Teresa a Eliana Di Caro ed Elena Doni, autrici del saggio del Mulino.
Il lavoro sulla P2 non le sarà perdonato. È sotto il governo Berlusconi che, nel 2004, viene promosso su iniziativa della Prestigiacomo un dizionario delle donne italiane. La voce “Tina Anselmi” è un’infilata di cattiverie, «improbabile guerriera», «furbizia contadina», anticipatrice della «futura demonologia politica, distruttiva e futile». Un attacco quanto mai ingiusto e sconsiderato.
Quando esce dalla scena politica, dopo essere stata proposta senza successo per il Quirinale, ritorna nella sua Castelfranco. Può contare su una famiglia affettuosa, tra molti nipoti e due sorelle che l’hanno seguita fino agli ultimi giorni, regalandole il meritato dono di morire in casa. Le amiche come la Vinci - curatrice dei suoi diari segreti sulla P2 - la ricordano ironica, mai scioccamente nostalgica («non è vero che eravamo meglio noi»), insofferente alle contorsioni della politica («ma chi l’ha detto che una persona semplice non sia un buon politico?»), allergica ai narcisismi e all’autoreferenzialità. Diceva sempre noi, la Tina, mai io. E anche ora, composta con una semplice veste blu, appare ieratica ed essenziale, come di chi s’accomiata sapendo di aver fatto la sua parte.

La Repubblica, 2 novembre 2016

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