giovedì, ottobre 27, 2016

La mafia al tempo della guerra. “Pif è da rimandare in storia”

Abbiamo visto “In guerra per amore”, nelle sale da domani, con il presidente del Centro Impastato che esprime i suoi dubbi sul ruolo di Lucky Luciano e sulla repressione fascista
di MARIO DI CARO
“Sì, la satira contro Cosa Nostra è un’arma fondamentale ma in questo film è farsesca e legata alla macchietta” “Il boss di Lercara fu contattato in carcere non per lo sbarco ma per gli attentati al porto”
Macché regia occulta di Lucky Luciano. Macché mafia battuta dal fascismo. Umberto Santino, presidente del Centro di documentazione Impastato, saggista, uno dei maggiori studiosi del fenomeno Cosa nostra, è uno spettatore ostico della commedia di Pif “In guerra per amore”, da giovedì al cinema. Nella sala del Rouge et Noir che ospita la proiezione per la stampa, Santino “rimanda a settembre” l’autore per alcune ricostruzioni storiche del film, imperniato, storia d’amore a parte, sul patto tra mafia e americani dopo lo sbarco in Sicilia.
Patto che portò a legittimare il potere di alcuni mafiosi come Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo al punto di nominarli sindaci dei loro feudi, Villalba e Mussomeli, come ribadisce anche il finale del film, ma per Santino ci sono «molte forzature sul piano storiografico» perché «in gran parte il riferimento principale rimane la ricostruzione di Michele Pantaleone, smentita dagli storici più attenti» Insomma, se il “Memorandum” sulla mafia del capitano Scotten datato 1943, citato dal regista alla fine del film, è la prova regina della trattativa degli americani per cercare un grimaldello siciliano nella mafia, più di una interpretazione viene sottolineata da Santino con un’immaginaria matita rossa. Andiamo per ordine.
Il film mostra il presidente Roosevelt in sedia a rotelle mentre annuncia ai suoi generali che la Sicilia è l’obiettivo da conquistare («in realtà furono gli inglesi a Casablanca ad avere individuato l’Isola come roccaforte strategica», chiosa Santino) e subito dopo un ufficiale americano si reca in carcere per avviare una trattativa con Lucky Luciano al fine di contattare “patrioti” siciliani dopo lo sbarco: trattativa che, secondo il film, a guerra finita, sarà premiata con la scarcerazione del boss. Non è esatto, secondo lo studioso.
«Lucky Luciano fu contattato dopo gli attentati nel porto di New York che causarono l’incendio del piroscafo “Normandie” e che si temeva fossero opera di spie tedesche. In realtà si trattava di attentati degli stessi mafiosi che avevano il controllo del sindacato dei portuali.Una classica procedura di estorsori siciliani esportata dai racketeers americani, che ebbero un ruolo nell’eliminazione dei sindacalisti non alllineati come l’antifascista Carlo Tresca, ucciso nel’42 da Carmine Galante e Vito Genovese. Questi divenne poi collaboratore e traduttore di Charles Poletti, capo degli affari civili durante l’occupazione americana. Si dice che Luciano fosse in Sicilia nei giorni della strage di Portella, ma su questo c’è un grande punto interrogativo ».
Uno dei personaggi più riusciti del film è il don Calò Russo, crasi tra Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo, impersonato da Maurizio Marchetti, il Jean Pierre di “La mafia uccide solo d’estate”, boss domineddio che accoglie gli americani alle porte dell’immaginaria Crisafullo promettendo che non avranno bisogno di sparare un colpo. Un personaggio che diventa il punto di riferimento del comando americano. «Ma in realtà ci fu un episodio in cui il vero don Calò fu maltrattato dagli americani – dice Santino – Ci fu una scaramuccia in cui fu ucciso un americano, Vizzini fu prelevato dai militari, interrogato e trattato in malo modo. Ma dopo fu nominato sindaco poiché occorreva ricostruire una classe dominante di sicura fede anticomunista ».
Col “papello” dei nomi dei mammasantissima in mano, il tenente americano va in carcere per fare rilasciare la peggiore feccia del paese arrestata prima dello sbarco e spacciata per antifascista da don Calò. «L’azione repressiva del prefetto Mori fu efficace nei confronti del ceto medio mafioso ma non è vero che il fascismo aveva sconfitto la mafia – corregge Santino – Le indagini degli anni Trenta testimoniano che c’era una mafia perfettamente organizzata. Con il governo di coalizione antifascista del ’44-47che diede le terre incolte alle cooperative di contadini ripresero le lotte e iniziarono gli attentati ai sindacalisti. E con la vittoria del Blocco del popolo alle regionali del ’47 si ha la strage di Portella».
Il film si chiude mostrando la testimonianza più autorevole sul patto Mafia-Usa, il citato rapporto Scotten del’43, quello che prospetta tre ipotesi per combattere il rinnovato potere dei boss: un’azione armata, una tregua con i capimafia, abbandonare l’Isola al suo problema consapevoli di consegnarla al giogo criminale per molti anni.
Ma allora Pif ha ragione a sostenere che il salto di qualità la mafia l’ha fatto grazie agli americani che nominarono sindaci mafiosi? «Il salto di qualità sta nella legittimazione dei mafiosi come classe dominante, in continuità con un ruolo storico esercitato di fatto e già analizzato da Franchetti nel 1876. Il controllo della Sicilia viene delegato alla mafia e alla fine si scelse una via di mezzo tra la seconda e la terza ipotesi di Scotten».
Va bene, ma il sorriso come arma antimafia? La scelta di voler ridere sulla mafia come già hanno fatto Roberto Benigni con “Johnny Stecchino” e Roberta Torre con “Tano da morire”?
«La satira ha un ruolo fondamentale nella lotta alla mafia. Peppino Impastato usava uno strumento che per i mafiosi era micidiale, non sopportavano che su “Onda pazza” si storpiassero i loro nomi e che si ridesse di loro. Sciascia non capì che “Il mafioso” di Lattuada era un film satirico. “L’onore dei Prizzi” di John Houston, “Pallottole su Broadway” di Woody Allen e “Johnny Stecchino” di Benigni fanno satira sulla mafia, Ciprì e Maresco hanno lampi di genialità, io stesso ho cercato di ridere della mafia nel libro “Ragionevole proposta per pacificare la città di Palermo” in cui propongo di legalizzare gli omicidi mafiosi con il semplice pagamento di una tassa. Il mio libretto allora suscitò le reazioni dei benpensanti che dicevano “di certe cose non si ride”. Ma in questo film trovo un approccio troppo farsesco e troppo didascalico. La satira deve essere più tagliente, la risata non deve essere legata alla macchietta o alla battuta». Il soldato Pif è avvertito.
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