sabato, dicembre 27, 2014

AD AGRIGENTO, QUANDO IL PAPA NON SI CHIAMAVA FRANCESCO


LE VICENDE DI UN PRETE AGRIGENTINO QUANDO IL PAPA NON SI CHIAMAVA FRANCESCOChi, come me, ha conosciuto di recente Damiano Zambito, leggendo il suo volumetto Quando non c’era Papa Francesco. Storia di un’esperienza religiosa in terra di Sicilia (Grauss, Napoli – Roma 2014, pp. 85, euro 10,00)  scopre con un po’ di sorpresa che il distinto professore in congedo per raggiunti limiti d’età è stato, mezzo secolo prima, uno scatenato pretino che – chitarra in mano – girava la diocesi di Agrigento per animare gruppi giovanili cattolici e contagiare lo spirito innovatore del Concilio Vaticano II (1962 – 1965).

   Come alcuni di noi si è illuso di poter contribuire, con la propria conversione, alla conversione del pachiderma istituzionale che si è autodenominato Chiesa “cattolica”: e perché di illusione si sia trattato il lettore lo scopre proprio attraverso questa breve narrazione autobiografica.

    Nel 1959 egli si iscrive alla Facoltà teologica di Napoli, nella sezione San Luigi di Posillipo, gestita dai Padri Gesuiti. Per il seminarista proveniente dal profondo Sud è quasi un choc (benefico): “A fronte di un regolamento paramilitare vigente nel Seminario di Agrigento, con prefetti, squadre che si muovevano da uno spazio all’altro in fila e in silenzio, punizioni più o meno blande a seconda del senso di equilibrio del caposquadra di turno, passeggiate in periferia che iniziavano e terminavano in fila per due e in silenzio, a Posillipo la struttura e l’organizzazione della vita comunitaria concedevano ampi spazi di libertà e di responsabilità personale che creavano le condizioni per una crescita umana assolutamente impensabile ad Agrigento. Per esempio, ogni settimana eravamo sollecitati ad uscire in città, per fare visite o acquisti o per organizzare attività sportive ed ogni mese potevamo recarci per una giornata intera in una località a nostra scelta: Sorrento, Capri, Pompei, Montevergine ecc.” (p. 44). Anche “il livello culturale dell’insegnamento della teologia era notevolmente più elevato rispetto ad Agrigento” e “il metodo di insegnamento era completamente diverso: veniva dato molto spazio alle interpretazioni più recenti e demitizzanti della Bibbia e ad una lettura di taglio esistenziale della teologia  (pp. 44 - 45). Sono anni in cui  il futuro don Damiano conosce le esperienze di don Milani, frequenta il carcere minorile di Nisida, va settimanalmente a Roma per pranzare e conversare con i vescovi brasiliani partecipanti alle sessioni del Concilio ecumenico (sono i prelati che, invece di arrivare uno ad uno su automobili private guidate dai propri autisti, affittano un pullman per muoversi insieme, a costi minori, dalle modeste residenze di suore dove sono albergati). E in quegli anni il giovane Zambito matura un proposito che avrebbe contrassegnato le sue vicende successive: “Non farò mai alcuna affermazione teologica che non abbia un chiaro riferimento alla concreta vita dell’uomo” (p. 45).

    Quando egli viene ordinato presbitero, la diocesi di Agrigento è sostanzialmente la stessa dei tempi del vescovo Giovan Battista Peruzzo, vittima a Santo Stefano Quisquina nel  1945 di un attentato di mafia, non per eroismo civico ma a causa di un anticomunismo viscerale che gli “aveva fatto incontrare sulla sua strada e,  talora, stringendo alleanze con politici spregiudicati e con mafiosi senza scrupoli” (p. 14). Perciò l’attivismo del neo assistente diocesano dell’Azione cattolica giovanile non può non suscitare i primi sospetti nell’entourage del vescovo successivo, monsignor Giuseppe Petralia. Sospetti che diventano sempre più precisi ogni qual volta si delinea uno scontro fra la vecchia mentalità conservatrice e i nuovi stili liturgici: come digerire un prete che, per consolare i ragazzi delle parrocchie più chiuse alle novità, gli raccomanda: “Lasciate che il parroco si faccia i canti suoi, voi fatevi i canti vostri” (p. 32)?

     Il nodo più delicato è comunque il rapporto fra l’unità ecclesiale (indiscutibile in questioni di fede) e l’unità politica (che, secondo il vescovo dell’epoca, doveva realizzarsi all’interno della Democrazia cristiana). Zambito riporta lettere allucinanti come la circolare che un parroco di Castrofilippo indirizza a un giro di fedeli di cui si fida, in occasione di una elezione amministrativa degli anni Settanta: “ Caro Salvatore I. e sposa, a nome di S. Antonio e mio personale ti chiedo il favore di votare la lista ‘Statua della libertà’ in riconoscenza dei 15 milioni fatti assegnare alla nostra Chiesa che dagli altri è stata sempre abbandonata. Non negrami questo grande favore in questo momento e sii fedele a S. Antonio e a me. Mostra con il tuo voto quanto ami la nostra chiesa e manitieni il segreto di questa mia preghiera. Non me lo negare e mantieni il segreto di questa mia preghiera. Grazie, saluti e benedizioni. Il Parroco” (p. 72).

    Ribellarsi a questo andazzo non è una mera questione di strategia ‘pastorale’. E’ piuttosto il campo di applicazione di una nuova visione etica secondo la quale (proprio come per Gesù e le chiese dei primi secoli) il “peccato” principale non è saltare una messa domenicale o toccarsi i genitali a letto, quanto sfruttare il lavoro di un proprio fratello o tessere relazioni corruttive dentro le istituzioni. La prospettiva etica, a sua volta, dipende da una interpretazione più fedele dell’insegnamento originario: “la Buona Novella annunziata ai poveri, agli ultimi, ai perseguitati, i quali sono beati perché saranno i primi , non nell’altra vita, ma a cominciare da questa. A questo obiettivo deve tendere l’impegno politico-sociale dei credenti, i quali devono lottare perché  tra loro non ci siano più poveri ’ come nella primitiva comunità cristiana” (p. 42). 



Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

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