venerdì, agosto 15, 2014

Per Simone, Andrea, Raffaele e tanti altri fotografi caduti

ALBERTO STABILE
LORO non cercano gli hotel a cinque stelle, perché di soldi in tasca, anche quando partono con un incarico da un giornale o un’agenzia, ne hanno pochi. La sera non tirano tardi al bar dell’albergo, semmai qualche birretta in camera, perché l’indomani mattina presto sono già in giro dove succedono le cose e sperano sempre che le cose succedano con la bella luce del mattino. Se succedono nel resto della giornata quasi sempre è fatica sprecata. Non parlano troppo i fotografi, non raccontano le loro gesta professionali, o i loro problemi familiari come tendono a fare quasi tutti i reporter di guerra, o di crisi. In compenso, sanno ascoltare.

Ascoltano per capire come e dove muoversi. Poi decidono e partono, quasi sempre da soli, a differenza dei giornalisti della carta stampata che spesso si muovo in gruppo, perché il branco è nemico dello scatto buono, o della ripresa efficace, e se hai qualche speranza di vendere una buona foto o una buona ripresa devi avercela soltanto tu, non puoi condividerla con altri. Per questo, quando qualcosa va maledettamente storto nel servizio e vengono feriti, o uccisi, sono sempre soli, al massimo con un interprete nella lingua locale, o una guida, come Simone Camilli, a Gaza e come Andrea (Andrew) Rocchelli, in Ucraina.
M’è capitato di conoscerne molti colleghi fotografi in tutti questi anni spesi in Medio Oriente e in Russia. E’ gente da ammirare, innanzi tutto per il coraggio. Qualunque cosa succeda loro sono sempre lì, vicino, più vicino possibile, al cratere dell’esplosione, al luogo dello scontro, al cuore della massa. Non s’accontentano, non possono accontentarsi della panoramica, del totale, colto da dietro un angolo, ben protetti. Cercano i dettagli che sono l’essenza del nostro mestiere, i pezzi imprescindibili del mosaico che compongono la “storia”. Spesso, un dettaglio aiuta a capire meglio di cento analisi. E i dettagli, loro, non se li possono inventare con l’aiuto di una fantasia fervida e imbrogliona. Per questo vanno ammirati, perché con il loro lavoro ci restituiscono la morale, l’onestà, del nostro mestiere e ci dimostrano che è ancora possibile farlo come si deve.
Di alcuni ho dimenticato i nomi. Mi ricordo di un fotografo francese, se non sbaglio era il capo dell’ufficio fotografico della France Presse in Medio Oriente, che, colpito da un tiratore scelto israeliano, ci ha rimesso l’articolazione di una gamba. I tiratori scelti di Tsahal non sono mai stati teneri con i fotografi, né a Gaza, né nella West Bank. Una collega americana della Associated Press, colpita a Betlemme, all’inizio della Seconda intifada, va in giro da allora con un tutore che le sostiene la caviglia sinistra. Raffaele Ciriello ci ha lasciato la vita, a Ramallah. Qualche volta diventano protagonisti, loro malgrado. Un fotografo che ho conosciuto meglio e con il quale sono diventato amico, è Alfred Yaghobzadeh, origini iraniane, passaporto francese, un sorriso ingenuo stampato perennemente sul viso tondo. Alfred ne ha viste di tutti i colori. E’ stato rapito dalla Jihad Islamica (leggi, Hezbollah) in Libano negli anni 80 ed ha avuto la fortuna di venire fuori. Ha coperto la prima e seconda intifada, scattando foto rimaste nella storia di quell’interminabile conflitto, poi è andato a Grozny, in Cecenia, dove è stato ferito al basso ventre da un cecchino mentre attraversava in macchina la strada più pericolosa della capitale cecena. Se non fosse stato per il computer portatile che teneva sulle gambe e ha deviato la pallottola esplosiva, sarebbe morto.
Una sera, a Mosca, rientrando a casa dopo il lavoro, ho trovato in segreteria una sua telefonata. Aveva la voce sofferente. Un lamento preoccupante. I postumi di due interventi chirurgici si erano riacutizzati con la fatica del viaggio da Parigi. Pensava che un buon piatto di spaghetti l’avrebbe rimesso su. Quella sera a cena mi disse che, adesso che Nadine, gli aveva dato due figli maschi, gli sarebbe piaciuto dedicarsi ad un progetto sulle tradizioni religiose nel mondo. Prese informazioni sui Misteri di Trapani. Non ci ho mai creduto che uno come Alfred avrebbe gettato la spugna. Qualche giorno fa qualcuno mi ha detto d’averlo visto al Colony, a Gerusalemme, in procinto di entrare a Gaza.
Difficile, il mestiere di fotografo di guerra, o di crisi, lo è sempre stato. Ed anche rischioso. Ma ho l’impressione che negli ultimi anni, con le ultime guerre, quel vago alone di riguardo verso i fotografi di prima linea, se mai ci fosse stato, si sia definitivamente dissolto. Lo stesso vale anche per i reporter della carta stampata. Le leggi di guerra non valgono più, travolte dal fanatismo religioso, dalla caparbietà dei contendenti e dal facilità impunita con cui si accetta che venga colpita la popolazione civile.
Dal Blog di Alberto Stabile (La Repubblica)
15 agosto 2014

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