venerdì, agosto 08, 2014

Lumia: riforma costituzionale si, riforma costituzionale no...

Giuseppe Lumia
di Giuseppe Lumia
Sono state settimane intense, giornate piene di discussione e votazioni sulla riforma costituzionale. Ci sono stati momenti roventi, alcuni di alta riflessione, altri scadenti e pieni di insulti. Altro che clima costituente! Ma alla lunga questa riforma si affermerà per la sua portata coraggiosa e innovativa. Dopo 30 anni di tentativi sembra che stavolta si faccia sul serio. Vedremo durante il lungo cammino della riforma nelle varie letture parlamentari. Si poteva fare diversamente? Penso di no, speravo di sì. Il cambiamento è necessario e vitale, se non viene attuato la crisi ci sovrasterà ed il Pa! ese si spegnerà lentamente. Invece, bisogna sfruttare questa opportunità per fare scelte radicali e coraggiose, sui piani economico e sociale, e “costituenti” di una Italia nuova.

Ho partecipato, ho cercato di dare il mio umile contributo. H0 sentito forte dentro di me il senso di responsabilità. Ho condiviso le scelte del Governo e della maggioranza sull'impianto di fondo, ma alcune opzioni particolari non mi hanno convinto. Siamo alla prima lettura, bisognerà tornarci sopra e correggere alcuni aspetti. Vi affido queste riflessioni maturate alla fine di questo primo cammino. Disponibile naturalmente al dialogo e al confronto,  per arricchire  la mia valutazione e preparare il mio apporto quando il provvedimento tornerà in Senato in terza lettura.
Alla fine c'è l'impegno politico di sottoporre a referendum confermativo la legge di riforma costituzionale che uscirà dal Parlamento. Anche questa sarà una bella sfida per far vivere al Paese il cambiamento e chiamare ad una grande partecipazione i cittadini, le culture, i territori, le forze sociali e politiche.
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Riforma costituzionale sì, riforma costituzionale no. Può sembrare assurdo, ma nel nostro Paese si litiga anche su quello che nelle altre democrazie è un momento di maturazione e unità. Si è riusciti anche a confondere le acque creando un clima di tale contrapposizione che si è perso il merito del confronto, al punto tale che il pendolo del conflitto politico rischia di oscillare tra un no e un sì letti in modo strumentale. Il sì viene trasformato in proposta regressiva sul piano culturale e costituzionale, trascurando i maggiori limiti presenti nel no alle riforme, che oltre al profilo sempre regressivo ha assunto un carattere negativo tipico del conservatorismo.
Facciamo chiarezza. Il Paese ha bisogno di cambiamenti profondi, anche radicali, di scelte così inedite da non essere iscritte nella ormai consumata dialettica democratica presente nella nostra società. Diversamente il Paese si spegne e viene travolto dalla crisi economica e morale. Anzi, siamo in notevole e clamoroso ritardo. Già dopo la fine della Prima Repubblica bisognava rompere gli indugi e fare sul serio. Si è preferito investire tutto sulla "democrazia dell'Io" senza riforme, con risultati fallimentari e disastrosi. Il Paese ha bisogno di una stagione di progettuale cambiamento. Anche le riforme costituzionali sono più che mai necessarie. Ha fatto pertanto bene il Governo Renzi a superare le incertezze, che sulle riforme costituzionali durano da almeno trent'anni, e avanzare una proposta netta che nel corso del lavoro parlamentare ha acquisito una certa chiarezza e sistematicità.!
Non bisogna sottovalutare la prima delle scelte che ha accompagnato il progetto di riforma del Governo. Non è stata toccata la parte prima della Costituzione dove sono contenuti i valori di fondo della nostra democrazia, che rimangono vivi e tutti da attuare. Della seconda parte si è deciso di: modificare la struttura parlamentare del "bicameralismo perfetto" per passare al "bicameralismo differenziato"; tagliare il numero e i costi dei parlamentari riducendo il numero dei senatori, che non percepiranno nessuna indennità; sopprimere le Province, facendo propria la coraggiosa scelta già fatta dalla Regione Siciliana, e il Cnel; riorganizzare il rapporto delicato tra Stato e Regioni superando così la riforma fatta qualche anno fa del Titolo V della Costituzione.
E' sempre bene ricordare che nella storia del nostro Paese la Costituzione repubblicana rispondeva alla necessità di superare, dopo il ventennio fascista e il secondo conflitto mondiale, una società dove larghe fasce di cittadini poveri e di borghesia erano per molti versi refrattari ai valori della democrazia e alla pratica democratica. La sfida delle sfide che avevano di fronte i nostri padri costituenti era quella di democratizzare la vita del Paese per far vivere i valori e il metodo democratico nella politica, nelle istituzioni e nella stessa società. Si dovevano tenere a bada i profili autoritari e le leadership carismatiche che scorrevano lungo le vene della nostra storia. I nostri costituenti hanno scelto pertanto il "bicameralismo paritario", incarnato in un Parlamento forte e in un Governo debole. Si riteneva opportuno sacrificare la "decisione democratica" per favori! re la "condivisione democratica"
Nel nostro difficile e drammatico tempo alla "sfida della condivisione democratica", che rimane sempre aperta e da coltivare con cura, se n'è aggiunta un'altra forse più dirompente e attuale: la "decisione democratica". Quest'ultima è da considerare una vera e propria risorsa, senza la quale altri poteri prendono il sopravvento attraverso le maledette intermediazioni burocratico-clientelari, spesso corruttive, e politico-mafiose.
In democrazia le vie d'uscita da questa crisi possono essere diverse. Anche in Italia se ne sono sempre evidenziate due in particolare. La prima fa riferimento alla soluzione del presidenzialismo o del semipresidenzialismo. Così  è avvenuto in molte altre democrazie di solida storia democratica senza che questa sia stata foriera di sventure e rovine. Una seconda via è quella di riorganizzare la democrazia parlamentare e collocare il rilancio della "decisione democratica" nel cuore del potere legislativo a cui il Governo rimane legato attraverso il voto di fiducia. La proposta del presidente Renzi, il lavoro svolto dalla Commissione affari costituzionali e dall'Aula del Senato sono indirizzati verso questo secondo impianto più congeniale alla necessità di creare una svolta anche radicale della nostra vita parlamentare, ma senza perdere i legami con la nostra storia democratica e con la nost! ra stessa Costituzione.
Ne sono derivate alcune scelte di fondo:
I) Si passa dal "bicameralismo paritario" al "bicameralismo differenziato". Alla Camera dei deputati è stato assegnato il potere legislativo ordinario e il rapporto fiduciario con il Governo per rispondere così alla necessità di dare una risposta adeguata alla domanda di "decisione democratica", senza optare per il presidenzialismo. Al Senato sono state assegnate altre funzioni: raccordo tra l'Unione Europea, lo Stato e gli Enti territoriali; valutazione dell'attività delle Pubbliche Amministrazioni e controllo dell'attuazione delle politiche pubbliche; partecipazione all'attività legislativa costituzionale. E' rimasta una questione che ha diviso molto il Senato: se l'elezione dei senatori doveva essere diretta o espressione di secondo grado. E' prevalsa questa seconda opzione. Non è uno scandalo. Si è così voluto rispondere ad un'altra domanda presente nella nostra democra! zia e che non ha saputo trovare nella Seconda Repubblica alcuna sistematica risposta. Si tratta della "partecipazione territoriale", cresciuta sempre più dopo l'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle Regioni. Rimane un problema ancora aperto. Aver rafforzato una sola Camera, aver deciso di eleggere i senatori con un'elezione di secondo grado richiama necessariamente un'attenzione particolare alla legge elettorale che deve superare le distorsioni micidiali dell'attuale legge dei "nominati", per evitare che dalla finestra rientri lo spettro del leader carismatico e autoritario che sceglie i propri parlamentari e a catena il Presidente della Repubblica, parte della Corte Costituzionale e del Csm ... privando inoltre i cittadini del diritto di esercitare pienamente, come ha confermato la nostra Corte Costituzionale, la sovranità popolare nella scelta dei propri rappresentanti. In q! uesto caso le soluzioni possono essere due: una riforma elettorale che si indirizza verso i collegi uninominali oppure l'introduzione delle preferenze. Per quest'ultima è da preferire la doppia preferenza di genere alla luce anche degli ottimi risultati raggiunti in Sicilia per l'elezione dei Consigli comunali.
II) Sull'immunità parlamentare si sono contrapposte diverse impostazioni. Il Governo nella sua proposta originaria non l'aveva prevista per i nuovi senatori. In Commissione affari costituzionali del Senato è stata reintrodotta. L'Aula ha confermato tale scelta. Attenzione, nel '93 vi è stata una profonda riforma al punto tale che non abbiamo più una copertura totale come lo era prima e come rimane in molte democrazie e nello stesso Parlamento europeo. Oggi, il parlamentare italiano, a buon ragione, può essere indagato e processato. Rimane in vita l'autorizzazione a procedere per le intercettazioni ambientali e telefoniche, per le perquisizioni e per la privazione della libertà. Si poteva fare diversamente: eliminarla per i futuri senatori, visto che rappresentano il territorio e sono dei consiglieri regionali e sindaci in carica coinvolti nella gestione amministrativa, per cui non &egrav! e; opportuno assegnare loro una copertura che di solito si assegna a chi rappresenta un puro potere legislativo. L'altra soluzione poteva essere quella di assegnare il compito delicato dell'autorizzazione a procedere ad una sezione specializzata della Corte Costituzionale, già chiamata a svolgere funzioni di regolazione tra i vari poteri dello Stato e in qualche caso anche di tipo giudiziario. Rimane pertanto aperta questo problema su cui bisognerà ritornare nelle prossime letture di Camera e Senato.
III) Per l'elezione del Presidente della Repubblica  è previsto che questo compito è in carico ai parlamentari della nuova Camera e del nuovo Senato sempre in seduta comune. Una scelta riduttiva che andrebbe rivista nel corso delle letture che caratterizzano il lungo iter di riforma costituzionale. Il perchè è semplice. La riduzione condivisa a 100 Senatori assegna ai parlamentari della Camera un ruolo preponderante al punto tale che la maggioranza emersa dalle urne può eleggersi un proprio Presidente della Repubblica, snaturandone così la funzione di garanzia e di funzione super partes. In questo caso era da preferire l'inclusione nella base elettorale che elegge il Presidente della Repubblica di altri "Grandi elettori" come i parlamentari europei e altri rappresentanti delle Regioni, in modo tale da facilitare una decisione a larga convergenza e scegliere così un "! Presidente arbitro", come prevede la Carta costituzionale, senza ricorrere all'elezione diretta del Presidente, che sarebbe andata in contraddizione con l'impianto di riforma parlamentare che si è deciso opportunamente di seguire. In Commissione affari costituzionali si è introdotta una prima correzione prevedendo che l'elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto, a maggioranza di due terzi dell'Assemblea. Dopo il quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell'Assemblea, dopo l'ottavo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta, mentre prima scattava dopo il terzo scrutinio. Bisogna procedere in tale direzione e migliorare il testo licenziato in prima lettura dal Senato.
IV) Sul rapporto Stato-Regioni la decisione del Governo e della maggioranza del Senato è stata quella di eliminare la "legislazione concorrente", che stava a cavallo tra le stesse Regioni e lo Stato, foriera di ambiguità ed eterni conflitti. Adesso è chiaro quali sono le funzioni delle Regioni e dello Stato. Si è evitato inoltre di cancellare la specialità delle Regioni autonome. Sarebbe stato un errore micidiale. Certo, non dobbiamo difendere l'uso rovinoso che della specialità si è fatto, ad iniziare dalla Sicilia. Quella specialità era stata asservita ad un approccio micidiale che neanche la stupenda fase costituente seppe risolvere. Un approccio addirittura preesistente allo spirito democratico dei nostri costituenti, dello stesso  fascismo e che caratterizzò l'avvio dei primi decenni dell'Unità d'Italia. Si può semplificare in questo modo: l'a! ssetto che l'Italia si diede non fu di vera e sostanziale  unità. Si realizzò una sorta di Costituzione materiale che prevedeva un'"Italia duale": il nord produce per l'intero Paese  ed il sud consuma i prodotti del nord. Al sud il compito di consumare fu implementato dall'utilizzo della spesa pubblica e dalla progressiva e continua espansione del lavoro tutto concentrato nelle istituzioni pubbliche. Il posto pubblico è stato infatti l'aspirazione principale dei cittadini meridionali, alimentata da una politica che ha svolto sino ai nostri giorni una maledetta funzione di intermediazione burocratica-clientelare e spesso affaristico-mafiosa. Con il crollo della spesa pubblica finalmente va in crisi questo modello e oggi più che mai la specialità può riprendere il suo ruolo originario soffocato ed impedito per diventare un potente motore di legalità e sviluppo, soprattutto in quelle Regioni che sono state piegate e rovin! ate dalla logica che bisognava limitarsi a consumare passivamente la spesa pubblica e non valorizzare le proprie vocazioni produttive. Certo, la specialità moderna perderà le proprie ragioni storiche di rivalsa nei confronti del "Centro decisionale", ma potrà acquistare una più moderna e decisiva capacità di diventare "specialità progettuale". Per questo vanno sostenute le ragioni di chi ritiene che le specialità vadano mantenute, seppur stimolate ad imboccare la strada del cambiamento dei propri Statuti.
L'Italia cambia il proprio assetto Istituzionale, ma non cancella né il Parlamento né le Regioni. Anche le Regioni a statuto speciale cambiano, ma non annullano le proprie prerogative pattizie nel rapporto con lo Stato e autonomiste nella competenza esclusiva di alcune materie.

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