venerdì, febbraio 28, 2014

Achille Occhetto: "Così sfidai Vito Ciancimino"

Achille Occhetto
L'ex leader del Pci presenta a Ragusa e a Catania il suo libro autobiografico e sfoglia le pagine dedicate agli anni a Palermo: la Dc, la mafia, gli intellettuali al potere e l'accordo segreto per silurare Ciancimino
di FABRIZIO LENTINI
ALL'ALBA degli anni Settanta la lotta alla mafia passò, una domenica di primavera, per un ufficio disadorno nel centro di Palermo. Un incontro segreto, organizzato alla svelta con una telefonata a casa di Achille Occhetto, giovane segretario provinciale del Pci mandato da Berlinguer a farsi le ossa (e anche a raffreddare i suoi furori sessantottini). Ad aspettarlo, davanti a un palazzo anonimo nei pressi di piazzale Ungheria, c'era Michele Reina, rampante capogruppo della Democrazia cristiana. Il partito moloch di Salvo Lima, capocorrente di Reina. E di Vito Ciancimino, il geometra corleonese diventato in breve tempo il padrone della città. Da assessore ai Lavori pubblici aveva pianificato con cura il "sacco di Palermo", poi aveva perfino conquistato per qualche mese la poltrona di sindaco. Ora voleva essere rieletto. Lima non era d'accordo, perché il sindaco doveva essere "suo".

E i comunisti nemmeno, perché sapevano che era un mafioso. "Era primo pomeriggio, faceva caldo  -  racconta Occhetto  -  le strade erano quasi deserte, nessuno ci vide arrivare. Reina tirò su una saracinesca, mi fece entrare e illustrò il suo piano. Al primo scrutinio avrebbe fatto mancare a Ciancimino un po' di voti del suo gruppo. Al secondo, noi avremmo aggiunto i nostri undici voti ai loro per eleggere il candidato della fronda dc. Alla fine del colloquio, Reina mi strinse la mano e mi disse: "Per te questo è un incontro politico; a me, in questa città, può costare la vita". La storia ci dice come andarono le cose. Ciancimino non fu eletto, e otto anni dopo Michele Reina pagò col piombo un conto che forse qualcuno aveva cominciato a addebitargli quel giorno a Sala delle Lapidi. Nel 1979 dei primi delitti eccellenti Achille Occhetto era già tornato a Roma, sulla rampa di lancio che lo avrebbe portato a essere l'ultimo segretario del Pci e il primo del partito post-comunista. L'eroe solitario della Bolognina, il liquidatore della falce e martello, il Mosè che conduce il popolo rosso verso i territori della socialdemocrazia europea, evitando le macerie del Muro di Berlino. Ma anche il primo dei leader di sinistra sconfitti da Berlusconi. Per questo gli hanno rimproverato di tutto: dalla giacca marrone indossata per il duello in tv col Cavaliere ai baci con la moglie immortalati dal Venerdì.

Fino a quella definizione  -  "la gioiosa macchina da guerra"  -  nata come sinonimo nobile e autoironico di armata Brancaleone per descrivere il variegatissimo fronte dei "Progressisti" e diventata, con la sconfitta, un micidiale boomerang. Vent'anni dopo, il compagno Akel quel boomerang lo ha ripreso in pugno per scagliarlo contro i fratelli-coltelli che lo detronizzarono. Si intitola proprio così  -  "La gioiosa macchina da guerra" (Editori internazionali riuniti, 320 pagine, 16 euro)  -  il libro in cui Occhetto racconta la sua avventura politica, i passaggi decisivi della "svolta" e la damnatio memoriae inflittagli da D'Alema e company. Alla vigilia della presentazione in Sicilia (domani a Ragusa, alle 18 al Centro studi Feliciano Rossitto, e venerdì a Catania, alle 18 alla libreria Feltrinelli) Occhetto sfoglia le pagine siciliane, quelle che vanno dal 1969 al 1977: segretario a Palermo, poi leader regionale, pioniere dell'"unità autonomista" che anticiperà il compromesso storico, teorico dell'apertura del Pci alla borghesia illuminata e agli intellettuali come Sciascia e Guttuso, portati sui banchi del Consiglio comunale.

Dalla storia alla letteratura, c'è una lunga tradizione di incomunicabilità tra piemontesi e siciliani. Come fu l'impatto per uno come lei, cresciuto alla scuola di partito e nelle lotte di fabbrica al Nord?
"Mi bastò fare un giro nei catoi del vecchio Cassaro e nelle periferie infestate dalla mafia per capire che una visione puramente operaista non bastava. Non era sufficiente a capire i problemi, le tensioni, la disperazione di un popolo che aveva finito per trovare un suo modello di vita e di organizzazione nel fondo del sottosviluppo, con regole, pulsioni, accordi, moralità profondamente diversi. Dovevamo cambiare linguaggio".

E poi c'era quella gigantesca variabile chiamata mafia. Che lei incontrava già a Sala delle Lapidi, con i baffetti e il ghigno di Vito Ciancimino...
"Io, per la verità, cercavo di rifuggire da quegli incontri. Anche perché, quando mi si avvicinava, i paparazzi cominciavano a fotografare e non volevo essere immortalato insieme con lui. Anche fisicamente, sarebbe stato bene in un film come "Il Padrino". Era strafottente, sarcastico. Mi diceva: "Tu fai queste battaglie sulla moralità, contro il clientelismo e il voto di scambio, ma io così prendo un sacco di voti e voi niente"".

Grazie a Ciancimino, però, riuscì a convincere Sciascia a fare il consigliere comunale...
"Lo avevo incontrato diverse volte, ma non ne avevo vinto le resistenze. Mi diceva: "Sono uno scrittore, la politica non è affare mio". Io insistevo, lui si ritraeva. Alla fine, esauriti tutti i ragionamenti politici a sostegno dell'idea, feci ricorso a un'immagine teatrale: "Prova a immaginare la prima seduta del Consiglio comunale più mafioso d'Italia: da una porta entra Ciancimino, dall'altra Sciascia. Sarà chiaro a tutti che questa città ha cominciato a cambiare". Lui rispose: "Questo è un buon argomento". E accettò".

Non ce l'aveva fatta neanche Berlinguer, a persuaderlo...
"Quella fu la più grande gara fra timidi alla quale abbia mai assistito. Li avevo fatti incontrare a casa di Vittorio Nisticò, il direttore del giornale L'Ora, che li invitò ad accomodarsi insieme sul divano. Ma Berlinguer si sedette all'estremità di sinistra e Sciascia all'estremità opposta. Pronunciarono due o tre frasi di circostanza, poi tra loro si stese un silenzio di tomba. Ogni tanto si guardavano con un mezzo sorriso, come quello dei bambini che si studiano stando ciascuno dietro le gonne della propria mamma. Alla fine Sciascia parlò, ma per dire che la febbre gli impediva di restare a cena. E si alzò, mentre Berlinguer gli rispose che era giusto che pensasse alla sua salute. Enrico sembrava sollevato, come un ragazzino all'ora della ricreazione".

Lei fu l'alfiere dell'"unità autonomista" che alla Regione portò il Pci nell'area di governo, insieme con la Dc di Mattarella e Nicoletti. Una strategia cui da allora si richiamano tutti i fautori di alleanze anomale, fino a quella tra il Pd e Raffaele Lombardo...
"Dobbiamo distinguere tra unità autonomista e politica delle larghe intese, cioè accordi senza principi. La nostra era una politica alta e nobile di alleanza non con la Democrazia cristiana in quanto tale ma con un'insorgenza antimafiosa interna alla Dc, di rottura con la storia precedente di quel partito. Una rottura talmente forte da lasciare molte vittime sul terreno, a cominciare da Piersanti Mattarella, di cui avevo una grandissima stima e che pensavo sarebbe potuto diventare un ottimo presidente del Consiglio".

Insomma, quella strategia appartiene al passato...
"Il compromesso storico fu ideato da Berlinguer, con Moro, per superare la conventio ad excludendum contro il Partito comunista e aprire poi una fase di alternanza in mancanza di una riforma del sistema politico in senso maggioritario. Quella riforma c'è stata, anche per merito della nostra "svolta", e ha rotto la centralità della Democrazia cristiana. In questa seconda fase larghe intese con la destra hanno poco di nobile".

Anche in Sicilia?
"Penso proprio di sì".

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