sabato, febbraio 15, 2014

MEMORIA A CACCAMO. Il comunista, il mafioso e il contadino assassinato

Caccamo col Castello
di SALVO PALAZZOLO
Nessuno più si ricordava del comunista di Caccamo che si era messo in testa di salire sulla corriera occupata dai mafiosi. «Era tempo di elezioni - ha raccontato qualche settimana fa il pentito Nino Giuffrè ai procuratori di Palermo - sull' autobus c' era posto solo per chi avrebbe votato Democrazia cristiana. Dalla contrada di San Giovanni Li Greci gli elettori venivano portati al seggio e poi di nuovo in campagna. Ora, quel comunista ha cominciato a fare un po' di casino, ma non è salito.  (GUARDA L'ALBUM FOTOGRAFICO)
Dopo qualche tempo è stato ucciso. è una storia vecchia - ha aggiunto l' ex padrino - non la conosco bene, non so se ero nato o ero bambino. Questo so. Uno però prese l' ergastolo, e a me risulta che non c' entrava niente». Il comunista se lo ricordano ancora alcuni anziani del paese. Si chiamava Antonino Faso, ma morì nel suo letto. Però dopo il litigio, davvero la storia di Caccamo prese una strada inaspettata. Il comunista decise che era venuto il momento di raccontare tutto su quell' uomo che gli aveva impedito di salire sulla corriera, Salvatore La Corte, grande elettore della Democrazia cristiana e ritenuto uomo del capomafia Giuseppe Panzeca, già allora uno dei padrini più influenti della cupola siciliana. Era da qualche tempo che il comunista ci pensava, sollecitato anche dagli amici della Camera del lavoro, decisi a rialzare la testa contro i boss. Faso si presentò ai carabinieri e raccontò di aver visto in faccia i sicari del contadino Giorgio Comparetto, ucciso il 5 novembre del '45: fece i nomi di Salvatore La Corte e di suo fratello Giuseppe. Il primo finì all' ergastolo.
La storia del testimone Antonino Faso e del delitto di Giorgio Comparetto arrivò presto in un processo. Era già la fine degli anni Sessanta. Sul banco degli imputati, Salvatore La Corte (il fratello era già morto), accusato di aver sparato al contadino dopo averlo sorpreso a rubare un po' di frumento. Questa la versione ufficiale. Ma erano gli anni delle lotte per la terra, e la parola d' ordine della mafia di don Peppino Panzeca era una sola: i contadini devono essere fermati. Così anche Comparetto fu fermato, mentre era sulla mula col figlioletto di cinque anni. «Attendevo la corriera che arrivava da Palermo per prendere mio zio - raccontò molti anni dopo il testimone - sentì dei colpi, vidi scendere dalla montagna i fratelli La Corte». La storia del comunista e del contadino assassinato l' abbiamo ricostruita grazie a due testimoni, l' avvocato Salvo Riela, che fu legale di parte civile della famiglia Comparetto e il giornalista Aurelio Bruno, che si occupò del caso. In primo grado - era il gennaio del '69 - la corte d' assise condannò l' imputato a 24 anni di carcere, ma dichiarò prescritto il reato. Al processo d' appello si arrivò che era il '71. Gli avvocati dell' imputato erano Nino Mormino (già il padre Salvatore si era occupato del caso) e Aldo Casalinuovo: chiesero che il dibattimento fosse trasferito, per legittima suspicione. Ma i giudici respinsero, e condannarono all' ergastolo, decisione poi confermata in Cassazione. Salvatore La Corte restò a lungo in cella, morì alla vigilia della sua scarcerazione. «Fu un processo che suscitò grande scalpore - così ricorda Salvo Riela, parte civile insieme all' avvocato Nino Sorgi - non capitava spesso che il muro dell' omertà fosse infranto in maniera così coraggiosa, e che i familiari delle vittime si costituissero parte civile. Un ruolo importante l' aveva svolto la Camera del lavoro di Caccamo». «Erano anni di grande fermento - dice Aurelio Bruno - l' istituzione della prima commissione antimafia aveva ridato coraggio: alcuni importanti esponenti del partito comunista erano tornati a indagare sui delitti irrisolti di tanti compagni assassinati negli anni precedenti per il loro impegno contro tutti i soprusi. Il memoriale di Giuseppe Piraino, segretario della Camera del lavoro, segnò la svolta per il caso Comparetto». «Ma a Caccamo - ha raccontato Giuffrè - i comunisti, e tutti coloro che non condividevano le scelte politiche della mafia, continuavano a fare fastidio. Venivano considerate delle mele marce che dovevano essere eliminate. L' ultima fu Mico Geraci».


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