domenica, giugno 23, 2013

La memoria reticente e cancellata della guerra coloniale italiana

Il soldato Francesco Monastero e il "suo" dromedario

Salvatore Scalia

Da bambino, rovistando nell'album di famiglia, mi ero imbattuto nella foto di uno sconosciuto in abbigliamento esotico. Somigliava ad un africano. Un libro e il catalogo di una mostra di foto di colonialisti siciliani rievocano l'avventura dei cosiddetti "civilizzatori" italiani del Nord Africa tra il 1935 e il 1941
Da bambino, rovistando nell'album di famiglia, mi ero imbattuto nella foto di uno sconosciuto in abbigliamento esotico. Somigliava ad un africano. Avvolto in un mantello bianco, con un profilo affilato e uno sguardo dimesso, stava fermo davanti ad una tenda, appoggiato a un fucile che sembrava conficcato nella sabbia. Pur avendolo osservato tante volte, mai avevo chiesto chi fosse né mi incuriosiva sapere come fosse capitato tra tanti volti familiari. In lui non c'era niente che denotasse l'aria di famiglia. Passarono molti anni prima che mia madre mi dicesse che era una foto di suo fratello, lo zio Santo. Era stata scattata in Etiopia durante la guerra tra il 1935 e il 1936.

Nessun particolare combaciava: la magrezza e il volto smagrito stridevano con le rotondità che avevo sotto gli occhi. Né riuscivo a immaginare uno spirito guerriero nello zio, uomo di assoluta bontà.
Del resto nel ritratto non aveva niente di marziale. Né lui né mia madre mi raccontarono alcunché. Anzi, se ne accennavo, notavo soprattutto nello zio un senso di fastidio. Era come se dovesse rievocare un estraneo e quel passato non gli appartenesse.
Ciò contrastava fortemente con l'atteggiamento del nonno paterno che amava raccontare la sua personale odissea nella Prima guerra mondiale; o con la voglia di rievocare dei reduci della Seconda guerra mondiale.
Dovettero passare molti anni prima che comprendessi quella reticenza: lo zio era stato uno dei tanti siciliani trascinati dalla politica imperiale del fascismo in Africa, trasformato suo malgrado in portatore di civiltà, in esponente di una razza superiore, che ripercorreva i fasti dell'antica Roma. Poco importava se la missione civilizzatrice fosse fondata sulle armi, sulle bombe, sui massacri e sui gas asfissianti.
Questo ricordo personale è affiorato di prepotenza nel momento in cui ho sfogliato due volumi: "Lo scrigno africano. La memoria fotografica della guerra d'Etiopia custodita dalle famiglie italiane" (152 pagine, euro 17) edito da Rubbettino e a cura di Mario Bolognari, docente di antropologia culturale all'Università di Messina.
L'altro è il catalogo della mostra all'Istituto Gramsci a Palermo dell'album di fotografie di Francesco Monastero a cura di Giovanna Monastero e Santo Lombino, intitolato "Etiopia 1935-36. Un soldato racconta la guerra coloniale", Adarte Edizioni. Le foto di Monastero fanno parte anche del primo libro.
Il fatto stesso che le foto escano solo ora a tanti anni di distanza dal conflitto, testimonia come reticenza e rimozione fossero una reazione comune, senza distinzione di posizione sociale, né culturale, né ideologica.
C'era una voglia diffusa di avvolgere tutto nella retorica di "italiani brava gente" che ha impedito per lunghi anni di fare i conti con i fatti e i misfatti del colonialismo italiano in Africa, denunciati già da Georges Bernanos nel 1938 nel libro "I grandi cimiteri sotto la luna" celebre atto d'accusa contro la guerra civile spagnola.
Tre dei quattro fotografi, di cui si parla nel libro "Lo scrigno africano", sono siciliani: Vincenzo Arlotta, medico messinese specializzato in malattie veneree; Francesco Monastero, portaferiti da Ciminna, in provincia di Palermo, arruolato nei carabinieri e infermiere, costretto per sopravvivere ad iscriversi al Pnf dopo averne a lungo rifiutato la tessera; Francesco Patané, autista di Taormina con licenza elementare, dichiaratamente fascista. Il quarto è l'ingegnere Paolo Ferrario, nato a Milano ma stabilitosi alla fine della guerra a Taormina.
I punti di vista sono differenti, così come il grado di cultura e l'adesione all'ideologia fascista, ma le foto costituiscono un racconto unico e compatto non solo per il tema, ma soprattutto per il comune atteggiamento mentale.
I fotografi posano sulle vicende, sulle persone e sui luoghi lo sguardo della superiore civiltà italiana ed europea che non ammette altre verità ed elimina dal quadro ciò che può turbarne l'armonia.
E credono di averne diritto anche per il solo fatto di possedere la capacità tecnologica di fissare e riprodurre le immagini. Per una volta, a smentire un vittimismo atavico, sono i siciliani ad indossare i panni del dominatore prepotente.
I risultati tecnici dipendono non solo dall'abilità del fotografo ma anche dai mezzi a disposizione. Le foto del medico, ispirate da intento scientifico oltre che da una notevole sensibilità antropologica, sono di notevole valore documentario.
Lo spirito resta quello coloniale, sicché l'obiettivo offre una realtà parziale.
Ma la riproduzione fedele della realtà smentisce implicitamente la propaganda perché mostra senza veli la miseria della retorica, l'inconsistenza della conquista.
Nell'antifascista Monastero e nel fascista Patané la guerra è una marcia trionfale. Dal saluto del duce alle truppe in partenza alla presa di Addis Abeba, è una lunga fila di camion e mezzi corazzati che schiacciano la resistenza degli etiopi. Anche i mezzi meccanici sono un prolungamento della potenza dell'uomo bianco.
In una foto dell'autista sul predellino di un camion c'è tutta la fierezza della superiorità dell'homo technologicus. Tuttavia lo squallore dei villaggi, la miseria fisica dei nemici sottomessi smentiscono implicitamente la propaganda eroica del regime.
La conquista è giustificata dalla missione civilizzatrice verso un popolo primitivo: l'apparecchio fotografico diventa uno strumento complementare nell'appropriarsi di un mondo altro. L'umiliazione dei nemici è nelle foto sulla loro resa.
Eloquente un'immagine di Francesco Monastero preso di spalle che domina con la sua figura una massa di prigionieri. Non resistono i nostri civilizzatori alla tentazione di farsi fotografare davanti a un nemico ucciso o ai cinque abissini che pendono senza vita dalle forche. La Resistenza, che ufficialmente non esiste, affiora così dalla sua stessa negazione.
L'uso dei corpi è significativo. Nei campi di battaglia disseminati di cadaveri i morti sono solo etiopi. Gli italiani stanno tutti bene, in ottima salute e si rilassano a volte con un'allegra spaghettata. Al massimo, tra un saluto fascista e un atteggiamento marziale, si abbandonano a qualche esotismo da turisti come l'esperienza di cavalcare un cammello, o tenendo una scimmia al guinzaglio.
Sarà stato interesse scientifico per le popolazioni indigene, ma è un fatto che nelle foto del medico Arlotta i malati, anche quelli di un ospedale da campo, sono tutti abissini.
Tra gli italiani, si sottintende, non c'erano né malati, né feriti, né morti. Insomma, indirettamente si celebra
La Sicilia, 23/06/2013

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