venerdì, febbraio 01, 2013

Giovanni Falcone era un eroe scomodo sia da vivo che da morto

Giovanni Falcone
di GIORGIO PETTA
Eroe scomodo da vivo, ma soprattutto da morto. Giovanni Falcone è un chiodo profondamente infisso nella carne viva del nostro Paese
Eroe scomodo da vivo, ma soprattutto da morto. Giovanni Falcone è un chiodo profondamente infisso nella carne viva del nostro Paese. Da vent’anni. Una ferita purulenta che non si rimargina, né si chiude. Almeno fin quando l’Italia intera non farà i conti con la propria coscienza e la verità. Come chiede, da vent’anni, Ilda Boccassini che di Falcone fu amica senza i “se” e i “ma” di troppi vili ed ipocriti. Il 25 maggio 1992, due giorni dopo l’«attentatuni», al palazzo di Giustizia di Milano, parlando all’assemblea dei magistrati, pianse e accusò.
«Giovanni - disse - sapeva di dovere morire. Ma gli è toccato morire con l’amarezza di essere lasciato solo. Voi - aggiunse, rivolta ai colleghi - avete fatto morire Giovanni Falcone, voi con la vostra indifferenza, le vostre critiche. Voi lo avete infangato, voi diffidavate di lui. E adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali». Scomodo da vivo e scomodo da morto e per di più in un Paese di smemorati. Nel 1990 Leoluca Orlando disse che «dentro i cassetti della Procura di Palermo ce n'è abbastanza per fare giustizia nei delitti politici».

Nel 1991 la magistratura italiana scioperò addirittura contro Falcone e la legge che istituiva la Procura nazionale antimafia. E ancora oggi solo Ilda Bocassini ricorda l’assemblea dell’Anm organizzata a Palermo due mesi prima della strage. Tutti contro Falcone. Al suo fianco soltanto l’avvocato Michele Costa, il figlio del procuratore assassinato dalla mafia nel 1980. Onore al merito. Dopo Capaci, commemorazioni e celebrazioni. A tamburo battente. Anno dopo anno. Come mai?

«Credo - spiegò Ilda Bocassini, che coordinò le indagini sulla strage di via D’Amelio, in un’intervista del 21 maggio 2002 - che la ragione vada rintracciata nell’ipocrisia del Paese, nel senso di colpa della magistratura, nella cattiva coscienza della politica. Né il paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segni politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento. E’ soltanto il più macroscopico paradosso della vita e della morte di Giovanni Falcone: la sua breve esistenza, come oggi la sua memoria, è stata sempre schiacciata dal paradosso, a ben vedere». 
 La Sicilia, 1 febbraio 2013

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