mercoledì, settembre 12, 2012

L'assassinio di padre Puglisi: Cosa nostra ha agito "in odio alla fede"

Padre Pino Puglisi mentre celebra la messa
Nel decreto per la beatificazione del parroco di Brancaccio la svolta del Papa
di Lirio Abbate
Sì ma verso dove? Don Pino Puglisi ripeteva spesso questa domanda, obbligando così i ragazzi siciliani a riflettere sul loro futuro, a chiedersi dove li avrebbe portati la strada indicata dalla mafia. Da questo interrogativo nasceva la speranza, con una prospettiva laica di impegno nella legalità e una visione religiosa profonda. "Sì, ma verso dove?" è diventato il motto della sua missione. E adesso ha trovato una risposta chiara: il sacrificio di don Puglisi ha spinto il Vaticano ad aprire gli occhi su quello che realmente è l'organizzazione criminale Cosa nostra, la mafia. Uomini cosiddetti d'onore, che fanno la comunione, che vanno in chiesa a battersi il petto e portano la statua del patrono in processione, ma nonostante ciò agiscono «in odio alla fede», contro Dio e i suoi ministri. Forse è questo il miracolo che si potrebbe attribuire al sacerdote, assassinato a Palermo il 15 settembre 1993. Benedetto XVI ne ha deciso la beatificazione, riconoscendone il martirio e stabilendo che Cosa nostra lo ha ucciso, appunto, «in odio alla fede». Ora per proclamarlo santo la Chiesa richiede solo la prova di un evento soprannaturale.

Per la Sicilia il decreto di papa Ratzinger è comunque una svolta, arrivata dopo un secolo e mezzo di posizioni spesso ambigue. Anche la causa di beatificazione ha avuto un percorso lungo, con un susseguirsi di richieste e supplementi di indagine. È stata aperta nel 1999, con una questione fondamentale: don Pino è stato colpito dai killer per il suo apostolato o come rappresaglia per gli interventi assunti dalla Chiesa in quella stagione? La svolta del Vaticano sulla mafia arriva adesso, a 19 anni dall'omicidio ordinato dai boss palermitani del parroco di Brancaccio, il prete di cui gli stessi uomini di Cosa nostra avevano paura per ciò che di buono faceva sul territorio.
Cinque mesi prima del delitto, Giovanni Paolo II aveva pronunciato uno storico discorso ad Agrigento: «Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è via, verità, vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!».
La reazione dei corleonesi fu violentissima, concretizzata nelle bombe fatte esplodere contro due chiese romane nell'estate 1993: un ordigno fu piazzato in San Giovanni in Laterano, dove viveva il presidente dei vescovi italiani. Oggi, come spiegano fonti autorevoli vaticane, «non può essere messa accanto la morte di don Puglisi e la sua beatificazione con l'anatema lanciato da papa Giovanni Paolo II contro la mafia nel maggio del 1993 nella valle dei Templi».
I killer hanno ammazzato il sacerdote per quello che aveva fatto e avrebbe continuato a fare. Un comportamento di pace che non piaceva ai boss Filippo e Giuseppe Graviano, fedelissimi di Totò Riina e registi della campagna di attentati del 1993: personaggi che ancora oggi dominano con i loro silenzi e i loro messaggi le inchieste sulla trattativa tra Stato e mafia. Confermano dalla curia siciliana: «La chiesa di Palermo ha dovuto far comprendere a Roma che l'uccisione di don Puglisi non era stato un atto sconsiderato di persone senza scrupoli, ma era stato un'azione per sopprimere un uomo che facendo il prete metteva a rischio la prosecuzione di disegni mafiosi».
Don Pino conosceva bene la pericolosità delle cosche. Il suo primo incarico di parroco nel 1970 era stato a Godrano, un paesino dilaniato dalla faida tra due famiglie: per otto anni ha fatto della chiesa il luogo della riconciliazione. Ma il suo impegno era rivolto soprattutto ai giovani: lunghi anni da cappellano in orfanatrofio, l'insegnamento di matematica e religione nelle scuole. Nel 1990 torna a Brancaccio, il quartiere dove era nato. E dove tutto era nelle mani dei Graviano. La sua rivoluzione nel quartiere comincia con un pallone: togliere i ragazzini dalla strada e portarli a giocare nel campetto dell'oratorio. Gli parla, li aiuta, gli presenta un'alternativa alla cultura della mafia: semplice e rivoluzionario. Sfida apertamente i boss, nelle omelie dall'altare o anche in quelle celebrate sul sagrato della chiesa: fa arrivare la sua voce nelle strade del quartiere. E implora un destino diverso per i loro figli: «Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e sapere i motivi che vi spingono a ostacolare chi tenta di aiutare ed educare i vostri bambini alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori della cultura e dello studio».
Per i Graviano, che in quel momento sono al vertice di Cosa nostra, è una sfida inaccettabile. Dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio (di quest'ultimo attentato i Graviano sono stati esecutori), la città è passata dallo choc alla reazione, c'è un movimento popolare antimafia che anima la primavera. E lì, a Brancaccio, nel cuore del loro sistema di potere, i boss sentono che viene messa in pericolo la base del loro potere: il consenso popolare, l'ammirazione dei giovani che fornisce nuove leve alla loro macchina di morte. Cercano di intimorire il sacerdote, con minacce e avvertimenti. Poi decidono di ucciderlo il 15 settembre 1993, nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno.
Con la beatificazione di don Pino oggi la Chiesa è in condizione di poter affermare che «all'evoluzione di pensiero del magistero è corrisposto anche un esercizio del ministero stesso», in particolare in certe figure che «sconfiggono e fanno tramontare definitivamente sia il carattere istintivamente religioso della mafia - che non esiste - sia un perdurante atteggiamento di tolleranza o ambiguità di ambienti ecclesiastici nei confronti della mafia».
La beatificazione di padre Puglisi «non ha carattere politico», perché gli viene riconosciuta «l'altezza di una vocazione e di una scelta che egli ha fatto tipicamente ecclesiale e sacerdotale», e aver progettato ed eseguito il piano di morte «è stato un disegno contro la fede, perché don Pino agiva nel solco di una precisa tradizione cattolica ecclesiale».
Nel processo canonico sono stati valorizzati tutti gli elementi, in particolare le dichiarazioni dei due assassini che fecero fuoco sul parroco. Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza oggi collaborano con la giustizia. Lo sguardo e il sorriso di don Pino sono rimasti impressi nella mente dei due mafiosi che hanno deciso di pentirsi e chiedere perdono per ciò che hanno fatto. E anche questo potrebbe essere definito un miracolo. E dalle dichiarazioni di Grigoli e Spatuzza affiora che «c'era una matrice anti ecclesiale, anti evangelica nel comportamento di chi ha voluto uccidere don Puglisi».
Il passo in avanti voluto da papa Benedetto XVI può dunque essere definito come un fatto storico, un punto di non ritorno. La sanzione dell'autorità suprema della Chiesa sancisce lo scollamento totale tra Vangelo e mafia. «Non c'è nessuna possibilità di conciliazione» fra le due realtà. Chi è stato ucciso «perché faceva il prete è un martire, non è uno che ha subito un incidente di percorso ed è stato liquidato tanto per semplificare le cose». Questo è un evento senza precedenti: la beatificazione di un prete che è il primo martire di mafia.
Il nuovo percorso che vuole tracciare la Chiesa inizia a registrare segnali positivi nei territori in cui i boss sono ancora presenti. Significativa è la decisione adottata nei mesi scorsi dall'arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro, che ha vietato la celebrazione dei funerali religiosi per un boss mafioso. Notevole l'azione sul territorio fatta dal vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, contro il latitante numero uno Matteo Messina Denaro. Come pure importante è il messaggio lanciato dal vescovo di Locri, Giuseppe Fiorini Morosini contro gli uomini della 'ndrangheta che tentano di infiltrarsi nelle cerimonie religiose. E l'arcivescovo di Sorrento - Castellammare, Felice Cece, che ha annunciato di voler recidere nettamente ogni legame ambiguo tra la camorra e le celebrazioni religiose in quel territorio.
Ci sono però casi in cui la Chiesa mostra ancora delle remore e omette la denuncia pubblica. Al funerale di Stato per il sindacalista Placido Rizzotto celebrato - alla presenza di Giorgio Napolitano - il 24 maggio scorso a Corleone, a 64 anni dalla sua morte, l'arcivescovo di Monreale, Salvatore Di Cristina, nella sua omelia non ha citato la parola mafia. Come se si volesse ignorare la causa che ne determinò la morte. Ignorata Cosa nostra, l'arcivescovo ha pure storpiato il nome del sindacalista in Rizzuto.
Ci vorrà tempo. Per far comprendere al Vaticano che l'opera dei mafiosi era contro Dio e contro i suoi ministri purtroppo si è dovuto attendere oltre un secolo e mezzo, da quando di fatto la mafia ha assunto la sua organizzazione di controllo dell'isola. Adesso la scelta di papa Raztinger spazza via ogni ambiguità. Per il futuro, però, bisognerà dare risposta alla domanda simbolo di padre Puglisi: «Sì, ma verso dove?».
Antimafia 2000.com

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