venerdì, luglio 13, 2012

Ma dove sono i partiti?

Bersani, Monti, Berlusconi
di ALBERTO ASOR ROSA
Di sicuro il governo Monti non è il nostro governo. Ma qual è il nostro governo? E, più esattamente: noi chi siamo? Andiamo per ordine.
Il governo Monti ha assunto come proprio obbiettivo la salvezza nazionale (compito sicuramente da non sottovalutare da qualsiasi angolo visuale) e ha avuto dalla sua fin dall'inizio formidabili strumenti di sostegno, pressione e intervento, che gli hanno consentito di sopravvivere, e perfino in taluni casi prevalere, in condizioni difficilissime. Però, cammin facendo, sempre più si è chiarito che non si tratta di un governo tecnico (tecnico, dunque politico, politico ma anche tecnico.... ricordate le discussioni all'inizio?) ma di un governo ideologico. Per governo ideologico intendo un governo che fa discendere la propria azione da uno schema precostituito, al quale la realtà va progressivamente (e diciamo pure, talvolta ferocemente) adattata. Questa ideologia è quella che promana da Bruxelles e s'incontra, e talvolta (morbidamente) si scontra con quella di Berlino, per produrre alla fine una sorta di surplus identitario che invade giornali, media e opinione pubblica, risultando dominante, anzi (come comunemente si dice) pressoché unico.
Liberismo spinto e privatismo senza condizionamenti di sorta ne costituiscono i presupposti. Le vittime designate: il pubblico e i diritti. Del resto, come stupirsene? Quasi tutti i membri di questo governo vengono, in varie forme, dal privato, e al privato inevitabilmente guardano come al loro luogo di elezione. Per essere un governo tecnico-politico quello Monti s'è davvero allargato oltre misura.

Date le premesse era lecito aspettarsi che esso si applicasse ad alcune urgenti ragioni di restauro economico. Invece le medesime logiche-ideologiche sono ormai applicate su larga scala anche nei settori della sanità, della formazione, della ricerca e dell'ambiente. Il fatto che il nucleo dell'attacco allo stato sociale sia collocato nella produzione e nel lavoro ci induce a dimenticare, o a mettere in secondo piano, questi altri settori della strategia, ma l'attacco è ovunque in atto.

Il governo Monti, insomma, è il governo a più ampio e organico spettro che ci sia stato nella storia repubblicana.

Può fare a meno infatti dei condizionamenti e dei compromessi della sempre più odiata politica (e cioè del "gioco democratico"), cose che molti commentatori sempre più trionfalmente condividono ed esaltano. Alla fine del processo la società costruita in sessant'anni di lotte intorno ai principi della solidarietà e del mutuo soccorso sarà profondamente cambiata: e noi avremo a che fare con una società della concorrenza e della forsennata lotta per la sopravvivenza.

Del governo che noi vogliamo (o meglio: che noi vorremmo), questo almeno si può dire: e cioè che dovrebbe avere l'intenzione ed essere in grado di andare al di là sia del berlusconismo sia del montismo. È possibile questo? Se ce ne fossero le forze, sarebbe possibile. Tecnicamente, infatti esistono le condizioni per mirare ad attraversare la crisi senza rinunciare al patrimonio comunitario e solidaristico che ci sta alle spalle, ossia senza continuare a massacrare le vittime. Non parlo naturalmente di un governo radicale ed estremistico, ma di un governo riformista, seriamente riformista: e cioè di quel modello politico-sociale che in tutta Europa è l'unico ad offrire le condizioni oggi per opporsi allo strapotere del liberismo e del capitale finanziario, senza pensare di andare, come si diceva una volta, "fuori sistema".

Ma ce ne sono le forze? Qui comincia il discorso politico che partiti e movimenti si rimpallano da mesi senza arrivare a delineare neanche alla lontana non una soluzione ma un semplice, preliminare discorso. Prima di arrivarci bisognerebbe chiarire un punto.

L'antipolitica dilaga in Italia non perché ci sono troppi partiti prepotenti e cattivi, ma perché non ci sono partiti. Ognuna delle formazioni politiche, di destra e di sinistra, che si contendono il campo, è un organismo provvisorio e caotico, tenuto insieme dal prestigio (spesso poco attendibile) di un capo. L'unico partito meno non partito degli altri è indubbiamente il Pd: argomento che gli assicura almeno alcune chances di partenza rispetto alle altre formazioni concorrenti o convergenti. Ma che partito è anche il Pd? Il frutto dei colossali errori commessi fra il 1989 e gli anni '90, un organismo non coeso e spesso incoerente e al proprio interno contraddittorio, per niente simile ai grandi partiti riformatori europei. Sono questi gli anni in cui per molte, e anche molto serie, ragioni si è consumata la catastrofe delle vecchie forme di organizzazione politica italiana, la Dc, il Pci, il Psi, e nulla le ha seriamente sostituite. È un punto di vista nostalgico, novecentesco? Non pare: in Francia Hollande non è concepibile senza il Partito socialista; in Germania l'alternativa alla Merkel non è concepibile senza la Spd. In Italia, al contrario, persino l'ondata delle spinte rinnovatrici, che pure da molte parti positivamente si leva, non fa che moltiplicare la confusione in atto e il cacicchismo (anche a sinistra) che sembra proprio di questa fase storica della vita politica italiana (persino il Movimento 5 Stelle, che s'oppone a tutto, può esser fatto rientrare perfettamente all'interno di questo schema, anzi ne rappresenta il prodotto più tipico).

Costruire la prospettiva di un serio governo riformista post-berlusconiano e post-montista coincide dunque con la prospettiva di costruire un serio partito riformatore, democratico e socialista, capace di rappresentarne l'anima e di costituirne il detonatore, anche elettorale. Tronti dice che con la seconda Repubblica sono finite le due sinistre, ora ce n'è una sola. In teoria può anche esser vero. Ma in pratica che vuol dire? Affinché l'operazione storica di superamento di quella che io chiamo la decadenza italiana - quella viziosa e corrotta del berlusconismo e quella per bene e violenta del montismo - si realizzi, ci vuole qualcosa di più di una formula.

L'unica strada possibile per sapere chi siamo e se e con chi possiamo stare insieme è quella dei contenuti. Io ne propongo due: lavoro e ambiente. Niente di pacifico e di scontato, beninteso. Le mie esperienze degli ultimi anni mi spingono anzi a pensare che siano due fondamentali campi tematici in potenziale conflitto fra loro, soprattutto in tempo di crisi. Ma senza un programma che si proponga invece di metterli in perfetta coerenza fra loro e li faccia lavorare l'uno a favore dell'altro, non andremo da nessuna parte, perché le due questioni, messe insieme, fanno la nostra storia futura, anzi, la storia umana futura (a livello mondiale, beninteso).

La mia proposta è che il Pd e le altre forze orientate a lavorare per il nuovo governo riformatore indicano per l'autunno una grande assemblea programmatica, aperta a chiunque sia interessato a parteciparvi in questa prospettiva, nel corso della quale si discutano i contenuti, le forme e le condizioni dell'intera operazione (che per l'appunto dovrebbe fin dall'inizio esser duplice, di partito e di governo).

Si parla tanto di rapporti da costruire o ricostruire fra politici e società civile. Quale altro modo migliore di questo per verificarne opportunità e modalità? L'egemonia si conquista mettendosi a confronto e dunque a rischio, non chiudendosi nelle estenuanti e inconcludenti trattative tra forze, piccolo o grandi, organizzate.

Una terza via non esiste: o c'è risposta su questo punto o non ce n'è alcuna. Se non si opera in questo senso, si va nell'altra direzione possibile: quella che metterà insieme (continuerà a mettere insieme) berlusconismo (anche senza Berlusconi) e montismo (anche senza Monti). Di ciò già si mormora e sussurra nelle celate stanze del potere: una grosse koalition, realizzata però in Italia senza le forti identità partitiche, che altrove l'hanno prescelta e in qualche modo controllata. Cioè ancora una volta fuori e contro la politica: cioè, tendenzialmente, sempre più tendenzialmente, fuori e contro la democrazia. I tempi sono stretti, non c'è molto tempo per pensarci.
Da: Il manifesto, 13 luglio 2012

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