venerdì, luglio 27, 2012

Dell'Utri e il militare dei misteri


Marcello Dell'Utri
di Lirio Abbate e Paolo Biondani
L'inchiesta sulle bombe del 92-93 si sta concentrando su un ex maresciallo dei carabinieri coinvolto nella prima (comprovata) trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Il quale, rivelano le intercettazioni, era in stretti rapporti con il factotum del senatore berlusconiano. Il tutto in un giro oscuro di mafia, servizi segreti e terrorismo nero


Il factotum di Dell'Utri. E il militare della prima trattativa tra la mafia e lo Stato avviata nella stagione delle stragi. Quella ormai dimenticata, anche se per i giudici era «la più misteriosa e inquietante». Dalle nuove inchieste di Firenze sul senatore Marcello Dell'Utri, condotte dai carabinieri del Ros, emerge una rete di rapporti che ha sorpreso perfino gli investigatori.

Al centro degli incroci c'è Massimo De Caro, il consulente ministeriale arrestato il 24 maggio con l'accusa di aver rubato 2.200 libri antichi dalla Biblioteca dei Girolamini a Napoli, di cui era diventato direttore su pressione politica. Le intercettazioni documentano i suoi strettissimi rapporti con Dell'Utri, l'ex manager di Berlusconi che tra il '93 e il '94 fu l'artefice di Forza Italia. E che ora i pm di Palermo chiedono di processare per aver contribuito a far trattare la mafia con lo Stato. Sui retroscena del passaggio alla Seconda Repubblica, tra Tangentopoli e bombe mafiose, hanno aperto inchieste tre Procure. All'inizio di quest'anno i carabinieri di Firenze, mentre indagano su tutt'altra storia (presunte tangenti versate a Dell'Utri, tramite De Caro, dal colosso russo dell'energia Avelar-Renova), intercettano un loro collega. Non uno qualunque: il maresciallo che tra il '92 e il '93 si era trovato al centro della prima «comprovata trattativa» tra Stato e mafia. Quella che, come spiegano le sentenze diventate definitive, «finì per dare ai boss corleonesi l'idea di attaccare il patrimonio storico e artistico per ricattare lo Stato». «Un'idea che Cosa Nostra, prima del luglio '92, non aveva mai avuto»: è la «strategia del terrore» poi esplosa nel 1993 con le stragi di Firenze, Milano e Roma.

La prima intercettazione «rilevante» è del 3 febbraio 2012. In quel momento Massimo De Caro è indagato solo per le tangenti russe. Alle 12.16 gli telefona il maresciallo Roberto Tempesta. Il tono è confidenziale: «Massimo bello!». Tempesta si sente in debito: «Oggi mi ha chiamato il mio grande capo... è inorgoglito perché il tuo grande capo gli ha chiesto di darmi una consulenza. Ti ringrazio, perché so che è merito tuo». Il maresciallo ha lavorato per trent'anni al Nucleo tutela patrimonio artistico: da poco in pensione, continua a collaborare per recuperare opere rubate. Il suo "grande capo" è un generale, mentre quello di De Caro è il ministro dei Beni Culturali: la sua nomina fu voluta da Giancarlo Galan (entrato in politica nel '94 con Dell'Utri) e poi riconfermata da Lorenzo Ornaghi. Tempesta non sospetta che il suo amico consulente di due ministri sia indagato per corruzione. E non può immaginare che le intercettazioni del Ros, trasmesse da Firenze a Napoli, incastreranno De Caro come presunto super-ladro dei preziosi libri della biblioteca che dirigeva.

I carabinieri del Ros segnalano subito ai magistrati chi è Tempesta: il maresciallo che gestì «la prima trattativa Stato-mafia». Per capire l'allarme, dunque, bisogna tornare a vent'anni fa. I giudici della strage di via dei Georgofili intitolano così il capitolo sulla «causale» delle autobombe del '93: «La trattativa Gioè-Bellini: nascita di un'idea criminale». Antonino Gioè è un mafioso vicinissimo ai boss stragisti, in particolare a Riina, Bagarella, i fratelli Graviano e l'imprendibile Messina Denaro. Paolo Bellini è un ex neofascista di Avanguardia nazionale, scivolato nella malavita: ha scontato due condanne per furti di mobili antichi. Bellini conosce Gioè in carcere, nel 1981. Storia strana: il neofascista è detenuto sotto falso nome. E un colonnello dell'esercito viene arrestato per aver nascosto la scheda con le sue impronte digitali.

Assolto da un'accusa di omicidio, Bellini torna libero nel '91. In autunno va in Sicilia e riaggancia Gioè. I due si vedono fino a dicembre '92. Ed è Bellini a far capire al mafioso quanto contano i beni culturali per l'Italia. Come poi rivelano i pentiti, Gioè riferisce così il discorso ai boss: «Se ammazzi un magistrato ne arriva un altro, ma gli Uffizi o le Chiese non si possono sostituire, per cui lo Stato deve scendere a patti».
Nell'estate '92, intanto, il maresciallo Tempesta conosce Bellini a casa di un confidente (mai identificato). Il pregiudicato si propone come «infiltrato in Cosa nostra» per recuperare capolavori rubati. E dice che, in cambio, il mafioso Gioè chiede gli «arresti ospedalieri» per cinque boss. Il 25 agosto '92 Tempesta ne parla al generale Mario Mori, che dichiara lo scambio «impraticabile». Caso chiuso? No, spiegano i giudici, perché l'effetto «oggettivo» della trattativa con Gioè, al di là delle intenzioni dei militari, fu di «suggerire a Cosa Nostra l'attacco terroristico ai monumenti».

Gioè viene arrestato nel marzo '93. La Dia gli ha nascosto in casa una microspia, decisiva per l'inchiesta sulla strage di Capaci. E solo oggi si è scoperto che vicino all'alloggio del mafioso c'era una sede coperta dei servizi segreti. Il 28 luglio '93 Gioè si suicida in cella (almeno ufficialmente) lasciando una lettera piena di messaggi, dove tra l'altro definisce Bellini «infiltrato». Ma allora perché gli dava confidenza? «Di Bellini si sa troppo poco», lamentano i giudici. L'osservazione è profetica: uscito indenne (solo testimone) dal processo sulle stragi, Bellini viene riarrestato per due omicidi commessi tra il '98 e il '99. A quel punto confessa una decina di delitti: era diventato un killer della 'ndrangheta in Emilia. Ma la sua prima vittima, nel 1975, fu un militante di Lotta continua, Alceste Campanile. Insomma, mentre trattava con la mafia, Bellini nascondeva ai carabinieri il suo passato di terrorista nero. 
Nella sentenza sulle stragi, i giudici di Firenze definiscono Tempesta «testimone qualificato» e confermano la sua ricostruzione della «improvvida trattativa» con Gioè, che il generale Mori invece «ricorda poco». 

Oggi, dopo che il super-pentito Gaspare Spatuzza ha parlato di un'altra trattativa, quella che all'inizio del '94 avrebbe unito i fratelli Graviano a Dell'Utri chiudendo la stagione delle stragi, i carabinieri del Ros non hanno gradito di ritrovarsi Tempesta nella trincea opposta, accanto all'uomo di fiducia del senatore condannato in primo grado per mafia. E hanno chiesto ai pm di perquisire anche il maresciallo. Fino a prova contraria, Tempesta è ancora una volta in buona fede: ai suoi occhi De Caro era l'esperto del ministero. Meglio: era una fonte investigativa che prometteva di «far recuperare decine di libri rubati». Non da lui, naturalmente, ma da una casa d'aste di Firenze sua «nemica». 

Nell'aprile 2012, dopo la prima perquisizione della biblioteca svaligiata, De Caro cerca di usare il maresciallo addirittura come alibi: «Farò preparare dal Nucleo patrimonio culturale una relazione di tutti gli interventi che ho fatto... in incognito». E Tempesta gli crede: «Ho già informato chi di dovere che è tutta una macchinazione». Ma il salvagente più sicuro, per De Caro, resta la politica. Per attaccare chi lo accusa, De Caro chiede un dossier a un fedelissimo di Dell'Utri, il senatore Elio Palmizio, che gli risponde così: «Fammi i documenti, così ci faccio un'interrogazione, che è un atto politico parlamentare: posso dire anche calunnie e nessuno mi può perseguire».
L’Espresso, 26 luglio 2012

Nessun commento: