venerdì, febbraio 10, 2012

Intervista a Giancarlo Caselli: "Che vergogna quando il Csm bocciò la nomina di Falcone"

Giancarlo Caselli
di PIERO MELATI
Parla il procuratore che scelse di andare a Palermo dopo le stragi. E che accusò Andreotti di mafia. "Quella volta che alcuni uomini di Stato mi chiesero se fosse proprio il caso di andare avanti nel processo...".
ROMA. Vent'anni dopo. Alla camera ardente di Oscar Luigi Scalfaro, il ministro dell'Interno che volle il maxiprocesso di Palermo, il presidente della Repubblica che denunciò: dietro le stragi di Capaci e via D'Amelio non c'è solo la mafia. Vent'anni dopo, Gian Carlo Caselli, oggi procuratore di Torino, trova ancora in quelle parole di Scalfaro la chiave di lettura degli attentatuni siciliani. Lei arrivò a Palermo il 15 gennaio del 1993. Vi rimase sette anni.
Cosa ricorda?
"Veleni. Non dico svolazzassero i corvi, ma il loro ricordo era ancora forte. Venivamo dal baratro delle stragi. Ottimi colleghi mi dicevano: sarebbe meglio non lavorare con questo e con quello, hanno tramato contro Falcone. Dissi: dobbiamo gettare il passato alle spalle, diventare una squadra. Esserci riuscito è stato il successo più grande".

Lei ha scritto che nel 1992 qualcuno pensò di fare dell'Italia un narco-stato.
"Uno Stato-mafia, dove la presenza del potere criminale stragista doveva essere dominante. Ma sbagliarono i conti. In Procura c'era sbandamento, sconforto, paura. Ce ne tirammo fuori, cooperando con la parte migliore del Paese".

Cosa la spinse?
"La vergogna. Le radici della mia scelta risalgono al 19 gennaio dell'88, quando il Csm di cui ero membro bocciò la nomina di Giovanni Falcone a capo dell'ufficio istruzione, preferendogli il suo oppositore, Meli. Provo ancora vergogna per la bocciatura di Falcone. Mi sentivo in debito con Falcone e con Borsellino, che l'aveva sempre sostenuto".

Cosa accadde al Csm? 
"Borsellino era stato nominato procuratore di Marsala in base a una direttiva del Csm che privilegiava la professionalità sull'anzianità. Poi era venuto l'articolo di Sciascia sui professionisti dell'antimafia. In seguito Sciascia e Borsellino si chiarirono. Ma quell'articolo venne sbandierato. Chi in precedenza aveva votato per Borsellino non appoggiò Falcone e ribaltò le regole, privilegiando l'anzianità. Dissero che avrebbero comunque difeso il pool antimafia. Ma quando Meli parlò davanti al Csm, disse chiaramente che dei metodi di lavoro di Falcone non sapeva che farsene. Falcone si dovette prima dimettere dall'ufficio e poi abbandonare Palermo. Borsellino disse che quello fu l'inizio della sua fine".

Quale fu la vergogna?
"Io votai per Falcone, i miei colleghi di Magistratura democratica si astennero. Ma poi fummo uniti contro chi, di fatto, voleva smantellare il pool. Costoro, forti dei numeri, ingaggiarono una lotta spietata. Non venne neppure accettata la proposta di una sospensione notturna per le esigenze di un infartuato. Volevano chiudere in fretta. Il paradosso è che, con il nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore poco dopo, l'ufficio istruzione sarebbe stato abolito. E dunque? Qual era la posta in gioco? Con Falcone doveva essere bocciato il suo metodo di lavoro, vincente ".

Così lei scelse Palermo. Bilancio?
"Arrestammo Riina, Brusca, Bagarella, i Graviano, Aglieri. I pentiti diventarono una slavina, per Cosa Nostra, grazie anche alla credibilità della Procura. Non è un caso se il primo mafioso che decise di svelare tutto sulla strage di Capaci, Santino Di Matteo, che era stato nel commando, volle parlare con me. E rivelò il segreto dei segreti di Cosa Nostra".

Come maturò la sua cantata?
"Di Matteo era un boss di Altofonte, agli arresti per vari omicidi. Ero a una festa della Guardia di finanza quando mi dissero che voleva parlarmi. La prima volta non mi guardò neppure. La seconda, negli uffici romani della Dia, mi parlò solo di presunti maltrattamenti in carcere. La terza volta ero a Venezia. La prima vacanza con mia moglie dopo tanto tempo. Dopo poche ore mi dissero di rientrare a Roma. Il conto dell'albergo, che avevamo già pagato, visto il poco tempo che ci restammo, era degno di Dubai. Trascinai con me anche mia moglie. Alloggiammo in un monolocale privo di telefono, per motivi di sicurezza. Alla Dia trovai Di Matteo. Mi disse: ero a Capaci, voglio dire tutto. Alla fine avevo verbalizzato sei ore di interrogatorio. Chiamai i colleghi di Caltanissetta, titolari dell'indagine su Falcone, e si concordò che sarebbero arrivati a Roma di prima mattina. Tornai nel monolocale, ma dovevo di nuovo uscire presto. E non c'era una sveglia. E allora mia moglie, pur di farmi riposare, si offrì di fare la sentinella. Per non addormentarsi a sua volta, si sedette in bagno, dove si gelava".

Che effetto le fece la confessione di Di Matteo?
"Di Matteo raccontò tutto su Capaci, la dinamica, i complici. Mi disse anche che per trasportare l'esplosivo sotto l'autostrada, per un chilometro e mezzo, avevano usato uno skateboard. Ne rimasi colpito: l'immensità della tragedia e la fragilità di un giocattolo. Ma presto l'esaltazione professionale per quella confessione chiese un prezzo da pagare. Un prezzo altissimo".

Quale?
"Cosa Nostra rapì il figlio di Di Matteo, Giuseppe. Un bambino. Prigioniero per diciotto mesi, torturato, poi strangolato e sciolto nell'acido. Perché Capaci doveva restare il segreto dei segreti. Santino, nonostante il dolore, non ebbe mai un tentennamento. Per me fu un nastro che si riavvolgeva. Era toccato a me interrogare Patrizio Peci, il primo pentito delle Brigate rosse. Le Br rapirono suo fratello, che fu poi torturato e ucciso. Anche quella volta rappresaglie da nazisti".

Poi venne il processo Andreotti.
"Era il lato oscuro accanto alla mafia militare. Una zona grigia. Ma il tema era tanto delicato che l'onorevole Luciano Violante (presente forse Gianni De Gennaro) non dico che mi sconsigliarono, ma mi fecero presenti le difficoltà di affrontare un simile processo. Risposi che il mio mestiere mi imponeva scelte non di opportunità, ma di rispetto della legge".

Si disse che Andreotti era materia per gli storici, non per i tribunali.
"Quando arrivai a Palermo il senatore Andreotti non era iscritto al registro degli indagati. Ma Borsellino aveva battuto quella pista, sulla base delle indicazioni di Buscetta. Nelle prime due riunioni che la Procura tenne sul caso dissi che non c'erano elementi sufficienti. Soltanto in occasione della terza decisi l'iscrizione nel registro degli indagati. Fummo cauti e rigorosi. Sapevamo che ci sarebbe costato lacrime e sangue".

Si disse che non c'erano prove.
"La Cassazione ha sancito l'esistenza di prove a carico fino al 1980 e l'insufficienza solo nel periodo successivo".

Non si è mai pentito?
"La Procura ha dimostrato di saper indagare a 360 gradi. Per questo era credibile".

Non ha mai parlato degli attentati progettati nei suoi confronti.
"Un giorno il questore Arnaldo La Barbera mi deportò, da un alloggio già superblindato, addirittura all'aeroporto militare di Boccadifalco. Proibì persino ai poliziotti l'uso di un campo da tennis. Ci giocavamo solo io e Antonio Ingroia, contro La Barbera e un amico. Un anno fa il pentito Spatuzza ha rivelato al processo Dell'Utri un progetto di attentato con un missile: dal Monte Pellegrino doveva colpire il palazzo dove abitavo. Ci vivevo da solo. Otto piani deserti, sacchi di sabbia e filo spinato, porte blindate di tale spessore che era difficile aprirle, soldati di guardia 24 ore su 24, con il colpo in canna".

Oggi La Barbera, deceduto, è accusato di aver depistato l'indagine di Caltanissetta su Borsellino.
"Una cosa che mi dilania, che mi fa soffrire".

E l'altro progetto di attentato?
"Dovevo rientrare a Torino a Natale. Il questore Antonio Manganelli mi costrinse a girare tutta l'Italia nascosto a bordo di pullman degli agenti penitenziari. Giunto a casa, ebbi l'ordine di tenere sempre le tapparelle abbassate. Non si doveva capire che ero in casa".

Sette anni blindatissimi.
"Abitudini abolite, perché la ripetitività era rischiosa. Sono un credente, ma era la scorta a decidere in quale chiesa andare la domenica. Sempre diversa. Così sono diventato il maggior esperto di chiese palermitane, quello che ha assistito alle omelie di più sacerdoti. E ho scoperto che dal pulpito non si è mai parlato di mafia. Mai".

Qual è stato il momento peggiore?
"Nel 1994. Alcuni avvocati in toga occuparono il piazzale del tribunale. E io ho fatto fatica a convincere persino mia madre di non essere un farabutto...".
La Repubblica, 09 febbraio 2012

Nessun commento: