martedì, dicembre 27, 2011

Milano, folla per Giorgio Bocca. Un saluto all'ultimo dei grandi

I funerali di Giorgio Bocca 
di PIERO COLAPRICO
MILANO -Sarà anche l'epoca di Internet e di twitter, ma per il funerale di Giorgio Bocca si mossi tanti, tantissimi. Per esserci di persona, per dare da vicino il miglior saluto possibile all'ultimo narratore dell'Italia. Uno che l'ha percorsa a passi da gigante: un viaggio pazzesco, perfetto, meraviglioso, amaro, dalla seconda guerra mondiale all'oggigiorno così incerto, della finanza truccata e del clic sul computer, passando per il Vietnam, il Vajont, il boom, la cronaca nera, Berlusconi, la Lega, tutto.
Chi lo conosce lo sa, o se lo immagina, ma chi non lo conosce forse capirà di che cosa si tratta quando si tratta di Bocca e del suo mondo attraverso un dettaglio popolare. Tra i primi ad arrivare nella basilica di San Vittore al Corpo, per mettersi accanto alla bara, c'è Jess il Bandito, e cioè il vecchio Gesmundo, uno della banda del furgone di via Osoppo, 1958, un mito del crimine: "Bocca  -  dice  -  mi ha scritto contro, duro, ma onesto, che ci posso fare, ero un rapinatore, e sono venuto per rendergli onore". E se è venuto uno come Jess, perché stupirci se nei banchi in fondo alla chiesa s'è commosso un partigiano, che aveva scritto un libretto sulla fame patita in  tempo di guerra. E come non abbracciare i tantissimi colleghi, di ogni giornale e di ogni città, tutti venuti qui, sotto le feste, tutti ammirati per "il dinosauro". Per "l'ultimo dei grandi". In tanti siamo qui con il cuore in pena, ma con la soddisfazione che circola perché: "Ha finito di scrivere l'ultimo libro, ha visto la copertina". Non ha lasciato a metà il suo lavoro, incubo professionale. Il bel lavoro, il lavoro intenso di una vita intensa.
Qualcuno s'è stupito della chiesa, dove c'erano Ezio Mauro, Umberto Eco, scrittori, editori, magistrati, la Milano bene e quella delle periferie, ma Bocca se n'è andato come se ne andavano quelli della sua generazione. Forse non troppo credenti, anzi, e di certo non baciapile. Ma persone incapaci di togliere agli amici, e alla moglie, la possibilità di dire loro un'ultima preghiera. O di farsi addirittura la comunione  -  e che fila che c'era... - e di ascoltare le parole di un prete. Parole che non cambiano quasi mai, anche se per Bocca è stata fatta un'eccezione, è arrivato da Lodi un biblista, Roberto Vignolo, a citare il libro della Sapienza. A parlare  -  tema basilare - dell'importanza della "parola", a descrivere Bocca come un "partigiano della parola". Definizione che ha fisicamente, letteralmente, creato qualche sobbalzo tra i banchi, perché Bocca era un partigiano, ed è una cosa, e se amava, sviluppava, sceglieva "la parola", quella giusta, questa è un'altra cosa. L'essenza "del Bocca", come lo chiamavano anche in famiglia, con ironico affetto, è risuonata nel ricordo del suo amico e agente Marco Vigevani. Ha parlato della "tavola di Bocca". Tavola vera, dove potevi trovar seduto un rabbino, un monaco, uno scrittore, ma anche uno studente, o uno di un comitato di quartiere. E dove si riuniva, intorno al "patriarca", una specie di "famiglia allargata, famiglia extralarge". Dove, tra un piatto e l'altro "c'era libertà di parola": si ascoltava chi avesse qualche cosa da dire, "i piccoli come i grandi". Convivio, parola antica, come Bocca.
Se ne va deluso, perché non ha visto futuro sognato dai tempi di Giustizia e Libertà compiersi in Italia: ha sperato, ha cercato, s'è schierato (senza ricavarne mai un bene materiale, e questo va detto ai critici), ma niente. E se lascia una lezione, è che bisogna conquistarselo, giorno dopo giorno, passo dopo passo, questo futuro migliore. Anche se non si è giganti nel cuore come lo era lui. Lui, che ha riempito una chiesa di intellettuali e di operai, binomio che sapeva incarnare come nessuno.

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