martedì, dicembre 27, 2011

Caro amico Giorgio Bocca, una vita insieme alla tua fantasia

Giorgio Bocca ed Eugenio Scalfaridi EUGENIO SCALFARI
di EUGENIO SCALFARI
È STATA l'ultima volta che l'ho visto, era il 6 dicembre scorso, le 11 del mattino e lui stava seduto alla sua scrivania, pallidissimo, il volto scavato con le ossa della fronte, degli zigomi e delle mascelle coperte dalla pelle e gli occhi fissi davanti a sé che guardavano il vuoto. Gli chiesi se avesse dolore in qualche parte del corpo, rispose "No, nessun dolore". "Questo è un buon segno  -  gli dissi mentendo  -  ma come ti senti?", mi guardava senza alcuna espressione, poi la bocca accennò un sorriso. La risposta fu "non ci sono". La moglie Silvia si era seduta accanto a lui, gli carezzò lievemente la guancia e quasi per cambiar discorso disse: "Per pranzo gli ho preparato la luganiga, gli piacciono quelle salsicce cotte nel vino". "Ma le può mangiare?", "Le assaggia".
Gli domandai se leggeva i giornali. Rispose: "Non c'è niente da leggere". Insistei: "La politica ti interessa sempre?". Rispose: "Non c'è politica". Poi fu lui a chiedermi: "Tu come fai a scrivere ancora?". Risposi che il mestiere, se lo hai imparato fin da ragazzo, è lui che ti porta sulle spalle e tu vai avanti senza fatica. Lui commentò "per me il mestiere non c'è più, se n'è andato prima di me ma l'attesa ormai sarà breve". Poi si voltò verso Silvia e lei mi disse che era stanco. Mi alzai, andai verso di lui e ci baciammo. "Tornerò presto". "Non mi troverai, non venire, sarebbe inutile". Sono uscito con una grande tristezza in cuore. Ora l'amica del destino è arrivata all'appuntamento e ha portato via la sua spoglia ma l'anima se n'era già andata e lui me l'aveva detto: non ci sono più. Per quanto mi riguarda continuerà a vivere finché vivrò. La memoria serve anche a questo: tiene vive le persone che ci sono state compagne di vita, di pensiero, di progetti e con le quali abbiamo discusso, litigato, gioito, sperato. 

* * *
Giorgio è stato un grande giornalista, un grande cronista e un grande scrittore. Non era un letterato ma uno scrittore sì, dei vezzi letterari non aveva bisogno, era la fantasia a muovergli la mano e la penna. Vedeva i fatti, i luoghi, i personaggi e li raccontava, ma la fantasia li associava ad altri personaggi, ad altri luoghi e ad altri fatti. Passava da un tempo ad un altro e da un luogo ad un altro luogo senza separarli neppure con un "a capo", neppure con un punto, al massimo una virgola. La fantasia fa di questi miracoli e lui, sotto la maschera del contadino e del provinciale, sentiva e raccontava l'avventura delle persone, poi all'improvviso alzava gli occhi verso il cielo e descriveva le stelle come intermezzo e poi tornava a raccontare la storia d'un bandito o d'un corruttore, d'un mondo dove i leoni avevano lasciato il posto alle volpi e alle faine.
Io gli ho voluto molto bene. Lui non so, era burbero nei modi e anche chiuso in sé quanto io ero aperto. "Tu vuoi sedurre la gente  -  mi diceva  -  e capisco che questo è il tuo mestiere". Un giorno mi disse che ero un cinico. Un altro giorno che la mia presenza gli dava sicurezza. Era insicuro e timido, Giorgio Bocca, ma puro come il diamante. A vederlo da fuori tutto avresti pensato fuorché fosse impastato di fantasia, che avesse un mondo fantastico dentro di sé e invece era proprio così e basta leggere le prime pagine del "Provinciale"  -  forse il più bello dei suoi libri  -  per capirlo. 

* * *

Tra le mille inchieste, interviste, cronache di guerra e di dolorosa pace, ricordi di vita partigiana che Giorgio ha pubblicato in libri e giornali, dall'Europeo al Giorno, e poi su Repubblica, è difficile scegliere.
Da noi venne fin dal primo giorno della fondazione e c'è rimasto fino a ieri, è durato 36 anni questo sodalizio. È incredibile la sua scrittura. Per la professione che faccio ho letto migliaia di articoli e le firme di chi vi scriveva sono state tra le più pregiate. I confronti sarebbero impropri, ognuno aveva la sua cifra, il suo stile, ognuno la sua visione della vita e del Paese. Ma quello di Bocca è stato unico. Pensava, vedeva, raccontava, si indignava, si innamorava dei personaggi, li faceva rivivere e vivere sulla pagina.
Tra i tanti luoghi che ha visto il Sud è stato una passione. Aveva in testa racconti di banditi, liturgie di iniziazione alla mafia e alle "'ndrine", violenze, soprusi, corruzione, ma anche gli antichi insediamenti della Magna Grecia, Sibari, Crotone, Agrigento, Locri e Ulisse, il mare azzurro di Scilla e Cariddi, le coste ioniche, Pitagora, il ratto di Proserpina, gli aranceti, le spiagge a perdita d'occhio. E il cielo. Un cielo blu da Croce del Sud che invece era quello dell'Orsa Maggiore e delle costellazioni di questa parte del pianeta, le Pleiadi, Orione, Andromeda.
Quel cielo blu sopra di lui gli ispirava il ricordo di Omero e di Odisseo che naviga tra l'isola di Circe e quella di Calipso. Ma poi lasciava all'improvviso quel mondo di fantasia, s'arrampicava per i sentieri dell'Aspromonte e raccontava i mafiosi, le donne matriarcali, i pastori, la cosca di Mommo Piromalli e infine i bronzi di Riace, apollinei nelle loro posture guerriere. 
Ho riletto, proprio dopo il nostro ultimo incontro di Milano, alcune delle sue inchieste tra le quali quelle che intitolammo "Aspra Calabria", scritta oltre vent'anni fa. L'inizio è sbalorditivo. È in Calabria e deve raccontare per i nostri lettori che cosa è l'Aspromonte, i suoi borghi arrampicati, le tane dove sono imprigionati per mesi e anni i rapiti. E invece comincia così: "Nel 1968 a Saigon, Vietnam, alloggiavo all'hotel Metropole, in una stanza liberty color avorio, solo il geco incollato sul muro mi ricordava che ero nel lontano sudest asiatico. Nella sala da pranzo camerieri in giacca bianca servivano "tournedos" alla Rossini e volendo lo chef ci faceva le "crepes" alla fiamma. Poi uscivo e a duecento metri passavo lungo la caserma dei rangers vietnamiti, con le porte e le finestre murate perché non si vedessero e non si sentissero i prigionieri vietcong chiusi nelle gabbie di bambù, corpi martoriati dalle torture sotto i pigiami neri".
Ma che cosa scrive? È matto? È andato a raccontare l'Aspromonte e descrive l'hotel Metropole e le gabbie dei vietcong. Ah, non conoscete Giorgio Bocca. Va a capo e scrive: "Oggi, 1992, sono in un hotel della Locride e posso vedere di qui l'Aspromonte" e continua "in questi boschi c'è un uomo, il giovane Celadon, che da due anni sta in una tana alta mezzo metro e quando lo fanno uscire deve star lì, sulla buca della tana, legato a una gamba con una catena come un maiale".
E da lettore ormai sei avvinto da quel racconto, ci sei entrato dentro fino al collo, ti sembra di leggere un romanzo di uomini d'avventura, guardie e ladri, corrotti e corruttori, un Hemingway, ma no, un Conrad che scrive sul cuore di tenebra. E invece stai leggendo il "reportage" d'un giornalista che s'è arrampicato fino a Platì, poi scenderà a Taurianova, a Gioia Tauro, poi risalirà di nuovo sulla montagna e intanto fruga nella memoria e rivede Saigon e una guerra spaventosa, ma quella guerra è finita e Saigon è ora una città moderna e ricca, ma qui questa guerra primitiva non finisce mai. Ieri leggevate Bocca, oggi leggete Saviano. Mafia, 'ndangheta, camorra sono sempre là da un secolo e mezzo. Solo che oggi da Platì e dagli altri borghi-rifugio gli ordini e gli affari arrivano a Milano, a Marsiglia, ad Amburgo, a Bogotà, a Tokyo, in Kosovo, in Montenegro, a Mosca. Si commercia la droga, si comprano i casinò di Las Vegas, fabbriche in Brianza, ristoranti a Roma, aree fabbricabili a Firenze e a Brescia. Il volume degli affari supera i 200 miliardi l'anno. Ma i capi vivono ancora nei tuguri sulla montagna o scontano il carcere duro e continuano a mandare ordini, a comandare, a governare il commercio insieme a tutte le mafie del mondo, mentre i figli e i nipoti parlano le lingue, sono seguiti da uno stuolo di avvocati e discutono di fidi e di prestiti con le banche e le fondazioni nei Caraibi, nel Liechtenstein, a Zurigo e a Miami.
 Dopo due anni da quella sua inchiesta arrivò un altro tsunami, sembrava un intermezzo da cabaret, Berlusconi, Dell'Utri, Previti, il partito dell'amore, il contratto con gli italiani, le televisioni, le paillettes e le escort.
I Piromalli e i Macrì sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca "money money money", un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria "meno male che Silvio c'è". Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà e il mistero doloroso diventerà un mistero gaudioso. Così è stato e finalmente quella cricca ha fatto le valigie, cacciata dagli italiani di buona volontà ma anche da una tempesta che minaccia di travolgere un Paese impreparato ad affrontarla.
Giorgio Bocca s'è battuto per tutti questi anni affinché l'Italia si rialzasse dal letamaio ed ha anche visto il finale di quella drammatica farsa. Poi se n'è andato anche lui che si considerava un anti-italiano perché detestava l'Italia che aveva sotto gli occhi.
Io ti ricorderò sempre, caro amico e compagno, tu la tua guerra partigiana non hai cessato mai di combatterla e ora hai il diritto di riposare in pace.
(27 dicembre 2011)

Nessun commento: